“Aragoste rosa!”
“Murena, tutti i crostacei ormai sono rosa.”
“E io le voglio rosse. Come quando ero bambino.”
Olì prese in mano il pennello elettronico, scelse il colore dalla tavolozza del menu, mescolò rosso corallo, giallo limone e una punta di bianco per ottenere il colore che aveva chiamato “Ceruti” da Giacomo Ceruti, autore di “Natura morta con gamberi”. Gamberi, aragoste, stessa famiglia.
Con piccoli tocchi sovrapposti modificò il colore delle aragoste nell’immagine proiettata sulla parete bianca. Più di una volta le opere di Ceruti l’avevano tolta dai guai, il beige spento delle noci, la giusta sfumatura delle pere spadone, la ruvidezza a bolle della verza, le sue opere, vecchie di cinque secoli, erano ancora vivide e luminose.
Sfiorandola con i polpastrelli, fece ruotare la sferetta mnemonica e l’immagine in soggettiva cambiò. Dal vassoio del pesce, che era stato servito al battesimo del nipote, lo sguardo di Murena si era spostato su un giovane atletico con i capelli rasati, intento a rosicchiare un orecchio di maiale arrostito.
“Millo mì,” commentò Murena. “Quell’imbrollione di Curcaio. Questo me lo cancelli. Via. Sparire.”
“Vuoi cancellare tuo figlio?”
“Bastascio.”
“Ma è il padre di tuo nipote, il bambino che avete battezzato.”
“E tandu? Tre mesi fa quel disgrasiau mi ha fregato con l’affare della barca a motore! Già che ci siamo… potresti eliminare anche il ricordo della fregatura?”
“Se te lo tolgo, smetterai di detestarlo.”
“Ah.”
“Facciamo così, ravvivo la luce del sole, tolgo la macchia di unto dai tuoi calzoni, cancello la frase di tuo cognato quando me la rendi la nassa? E la sostituisco con tieni pure la nassa, al momento non mi serve. Ma il ricordo della presenza di Curcaio rimane. Posso sbiadirlo un pochino con un filtro, così sarà meno forte. Dovrai fare uno sforzo, per ricordarti che c’era anche lui.”
“Perfetto. Ti piacciono le anguille?”
Olì chiuse gli occhi: il soprannome di Giacomo Ceruti era “il Pitocchetto”.
“Sono grosse?
“Come il mio braccio!”
“Acciughe?” chiese Impiastera, allungando il collo verso la padella.
“Murena è venuto a farsi sistemare un ricordo recente.”
“Ah, Murena. Quel figlio di imbroglioni e genitore di imbroglioni.”
“Le anguille sottili sono più saporite” replicò Olì, in un sussulto di orgoglio.
“E questo cos’è?”
Scostando una tenda ricamata, Impiastera svelò un fantoccio di sesso incerto ottenuto dall’assemblaggio di giacca e pantaloni imbottiti. Diversi giri di sciarpa sorreggevano un passamontagna di lana gialla, calzato su una grossa noce di cocco vuota, nascosta in parte da occhiali scuri a fascia.
“Spazzatura,” le rispose Olì, posando i piatti sulla tavola con un colpo secco.
Si vergognava perché di tanto in tanto, la notte, abbracciava la scultura in cerca di un corpo morbido.
“Potresti intitolarla Nostalgia.”
“Nostalgia di che?”
“Da algos, dolore, e nostos, ritorno. Dolore del ritorno. Ogni ricordo è un piccolo dolore per noi, perché sappiamo che non potremo più tornare in quel tempo.”
“Che noia! Se non la smetti ti cancello i ricordi del greco antico.”
“Scherzi? È l’eredità di mia nonna.”
“Utile. C’è grande richiesta di interpreti.”
“Dovresti riprendere a scolpire. O a dipingere sulla tela elettronica.”
“Siediti, è pronto.”
Impiastera prese posto a tavola. In silenzio divorò i tocchi di anguilla fritta, l’insalata di alghe e il contorno di salicornia. Si asciugò la bocca col tovagliolo di bisso e si affretto a spacchettare il dolce fatto con le sue mani. Impiastera era la sua vicina di scoglio. Si incontravano spesso per chiacchierare e scambiarsi cortesie. Olì le aveva persino chiesto di diventare comari di morte. Chi l’avrebbe seppellita, quando fosse giunto il momento? C’era gente che se ne fregava di restare a marcire lentamente sul proprio scoglio, nella posizione in cui la morte l’aveva colta. Lei no. Lei voleva una sepoltura come si deve, col fuoco. Impiastera l’avrebbe messa sulla barca, cosparsa di alcol e le avrebbe dato fuoco. Sarebbe andata alla deriva, un guscio fiammeggiante sulle acque blu di Santa Igia. Una bella fine. Una fine artistica.
“Santo nome di Dagon!”
L’amica aveva posato sulla tavola una torta verde smeraldo, ricoperta di gelatina trasparente.
“La mia ultima creazione. Farina di alghe clorofite, rape bianche, datteri e crema di avocado.”
Ogni dieci giorni Impiastera produceva un nuovo dolce. Olì era la sua cavia.
“Mmm, forse un po’ troppo morbida la consistenza.”
“Sapore?” L’amica scriveva ogni impressione su un foglio elettronico.
Olì passò il boccone di torta da una guancia all’altra.
“Muschio viscido. Ci sono delle… sferette gommose in mezzo.”
“Il mio tocco. Vongole candite.”
Olì si tappò la bocca con una mano, si alzò e corse a sputare il bolo salato nella pattumiera.
“Da rivedere,” scrisse Impiastera. “Magari tolgo le vongole e aggiungo una decorazione di vere perle…”
“C’è qualcuno in casa?”
Olì si affacciò a una finestra. Sopra un grosso motoscafo col motore acceso, la prua sollevata al di sopra dell’acqua e la prora carica di ostriche, c’era Curcaio e le rivolgeva un sorriso scintillante.
“Olì, fata della memoria, puoi rendere più luminosi i miei ricordi?”
“Vuoi togliere il ricordo di Murena dal battesimo di tuo figlio.”
“Quel vecchio prepotente mi ha rovinato la festa! Il pesce migliore di San Michele e lui andava in giro a dire agli invitati che era marcio!”
Olì sorrise.
“Voglio cinque aragoste.”
Due giorni dopo la radio trillò.
Olì era scesa al piano di sotto per controllare le reti. Molti anni prima il mare aveva fracassato il portone del palazzo, allagato le cantine, riempito l’ascensore, ed era salito fino al quinto piano. Gli altri inquilini erano scappati da tempo, perciò lei e la mamma avevano potuto traslocare all’ultimo piano. Ora l’acqua lambiva i gradini della rampa di scale che conduceva al pianerottolo del sesto, alimentando un tappeto di alghe viscide, cirripedi e anemoni dai lunghi tentacoli.
Nelle reti trovava spesso qualche sgombro, alcune triglie, piccoli saraghi, che integravano la sua dieta di alghe commestibili e susine. Le susine le coglieva dagli alberi che crescevano sul tetto del palazzo, ormai coperto di terra.
Si asciugò le mani nel pareo con una certa apprensione. Aveva sempre paura di ricevere una chiamata dal Castello. Premette il bottone di risposta.
“Qui Olì di S. Michele, passo.”
“Sono Massimeh. Dio mi ha detto di chiamarti.”
“Cosa ti occorre?”
“A me niente. Dio ha bisogno di te. Porta la tua sfera magica.”
Tolse i pesci dalle reti, rigettò in acqua quelli che avevano una sospetta colorazione azzurra del muso e conservò gli altri in un secchio pieno d’acqua dolce. Stava ancora ispezionando le reti quando da un barattolo sommerso uscì un piccolo polpo, che le avvinghiò un polso con i tentacoli. Per un attimo considerò la facilità con cui l’avrebbe potuto catturare e ficcare nel secchio, poi rise per il solletico di quelle dita elastiche. Com’erano morbide! Le ventose si appoggiavano delicate sulla sua pelle e poi si ritraevano in un balletto di piccoli tocchi affettuosi, quasi che l’animale, nella forma della mano di Olì, avesse riconosciuto una compagna e volesse parlarci.
Con il retino a maglie fitte, Olì tirò su dal secchio un pugno di pesciolini d’argento e ne porse uno al polpo, che l’afferrò avvolgendolo con un tentacolo e lo fece scomparire al di sotto della testa, dove si trovava la bocca.
“Bravo Sar.”
Sul barattolo che faceva da tana al polpo si leggeva la scritta: C sar. C per casa. Casa di Sar.
Si liberò dalla stretta dell’animale, lo rimise in acqua e risalì al piano di sopra. Indossò il cappello di alghe intrecciate, legandolo sotto il mento, e disormeggiò la barca, un vecchio frigorifero riempito di schiuma galleggiante, su cui aveva legato un sedile di automobile. Due parafanghi ai lati lo rendevano più stabile e facevano da bilancieri. Si avviò a lenti colpi di remi verso l’ospedale. Il calore del sole rendeva l’acqua pesante, vischiosa. Sotto la superficie si intravedevano le piattaforme squadrate dei palazzi sommersi, su cui crescevano distese di madrepore rosa e gialle, ciuffi di alghe, coralli candidi. Fece il giro largo, per non incastrare i remi nelle antenne, spesso rese invisibili dallo strato di muschi che le ricoprivano. Superò lo scoglio Deledda, l’ultima zona emersa prima della Grande Fossa. Poche remate e si ritrovò all’ombra dell’ospedale.
Gli ultimi tre piani dell’edificio emergevano dall’acqua. Accostò a una finestra spaccata, legò la barca a uno spuntone di ferro e si issò sul davanzale. L’interno era un susseguirsi di stanze vuote, letti, macchinari, perfino le cornici delle porte, tutto era stato saccheggiato. Salì dalla scala interna, Massimeh abitava dentro l’elicottero, in cima al tetto. Finché era durata la benzina, aveva fatto la spola tra il Castello e i vari quartieri della città, trasportando lettere, scambiando ami e lenze ricavati da strumenti medici con recipienti di plastica. Quando il carburante era terminato, Massimeh aveva iniziato a costruire piccole radio a corto raggio. Si tuffava ai piani inferiori e trovava lamine di acciaio prive di ruggine, cavi di rame, plastiche e arnesi da taglio. Sbozzava i gusci delle ricetrasmittenti nel legno che andava alla deriva. Venivano perfino da Accoddi a comprarle, in cambio di utensili di ossidiana e olio di cocco.
Olì sbucò sul tetto e Massimeh, alto, scuro e solenne, le venne incontro a braccia aperte.
“Dio ti ama!”
“Tanto da pagarmi per il lavoro?”
“Dio ha grande stima del tuo lavoro, Olì. Tu porti la gioia nei ricordi di ognuno di noi. Proprio ieri, su questa terrazza, c’è stato un bellissimo raduno. Abbiamo cantato le sue lodi e invocato la felicità per tutti.”
Olì aprì la valigetta e dispose l’attrezzatura sopra una barella da ospedale.
“Stenditi.”
Massimeh si sdraiò sulla schiena, sopra un tavolo da sala operatoria e sollevò la maglietta nera, stinta dal sole. Olì gli incastrò la sfera di vetro nell’ombelico e attivò il collegamento con il computer.
“Pensa intensamente al raduno di ieri.”
Massimeh chiuse gli occhi e dopo qualche secondo la sfera proiettò le immagini sulla parete ricurva dell’elicottero. Olì la fece ruotare delicatamente con un dito finché le immagini furono nitide. Il “grande raduno” era costituito da cinque persone, inginocchiate in preghiera davanti a Massimeh che officiava una messa, usando ostie di farina di pesce e vino di palma.
“Cosa vuoi che faccia?”
“Tzugata, Priogu, Nubedicorallo vorrebbero partecipare, ma sono bloccati sui loro scogli, perciò Dio non si offenderà se aggiungerò al ricordo qualche persona in più.”
Olì dubitava fortemente che un iracondo come Tzugata avesse la capacità di restare concentrato per tutta la durata del servizio religioso.
“Potresti disegnare anche qualche sconosciuto?”
“Sì, certo.”
Olì aprì il file “figure umane” dal database e selezionò “inginocchiati”. Ritagliò alcuni personaggi da Caravaggio, qualche adorazione seicentesca e alcuni miracoli di santi. Tutto sommato l’abbigliamento era simile a quello dei seguaci di Massimeh, teste rasate, calzoni sdruciti, mani sporche, e li incollò negli spazi vuoti del ricordo, tra un fedele e l’altro.
L’immagine proiettata si riempì di nuovi adepti in ginocchio, alcuni con le mani giunte, altri col capo chino, altri ancora con lo sguardo estatico rivolto a Massimeh.
“Bellissimo! Bellissimo! Di più, mettine di più, riempi la terrazza!”
“Ti costerà.”
“Non importa! Basta che si vedano molte teste!”
Teste! Ecco la soluzione! Non c’era bisogno di caratterizzare ogni individuo fasullo, a una certa distanza l’occhio umano annullava le differenze, percepiva in modo vago soltanto due occhi, un naso, una fronte. Tagliò i volti della prima fila al di sotto del naso e li incollò dietro il gruppo di seguaci; tagliò ancora una striscia dai volti e li inserì dietro. In poche mosse il tetto dell’ospedale si popolò di una folla di uomini e donne in preghiera.
Mentre Olì ritirava i suoi strumenti, Massimeh frugava sotto i sedili dell’elicottero, spargendo fogli elettronici dappertutto, simili a bianche ali di farfalla.
“Posso darti uno dei miei sermoni. L’ho scritto proprio ieri…”
“Preferirei qualche chilo di vongole,” replicò Olì. Tra gli adepti di Massimeh c’era Monia, una vongolara.
“Eccolo! Si intitola Fratelli e sorelle viviamo insieme con letizia. Oppure un orologio.”
“L’orologio, grazie.”
Viviamo insieme con letizia. Solo Massimeh poteva credere che fossero ancora una comunità.
Mentre remava per tornare al suo scoglio, Olì lasciò spaziare lo sguardo. Una coltivatrice di mitili, col cesto sottobraccio, raccoglieva le cozze in cima a un palazzo, saltellando tra i filari stesi fra un parapetto e l’altro. Le correnti avevano accumulato terra e rifiuti intorno alla cima degli edifici più alti, formando isolette coniche, simili a tanti piccoli vulcani emersi dall’acqua. Ogni accumulo di terra possedeva un abitante, il naufrago solitario delle barzellette, paragone reso ancora più verosimile dalle palme da cocco che crescevano sulle isolette. Il letto dell’inquilino, un’amaca, ondeggiava fra i tronchi.
Anche le terrazze del colle S. Michele brillavano d’acqua, punteggiata dal verde delle piantine di riso. Il colle era uno dei pochi luoghi in cui, invece di un singolo individuo, vivesse un’intera famiglia di sette persone. Possedevano un piccolo desalinatore, perciò erano riusciti coltivare il riso. Tutti gli altri si procuravano acqua potabile attraverso i sicomori israeliani, che raccoglievano l’umidità dell’aria.
Si ricordò allora che il suo sicomoro stava lavorando male. L’ultima volta che aveva guardato il livello del serbatoio l’aveva trovato pieno a metà. Si fermò a casa giusto il tempo di prendere una borraccia piena e un cappello più largo. Il Sole pomeridiano traeva bagliori accecanti dall’acqua. Ripartì in direzione dello scoglio di Oja.
Oja Mommìa era il miglior tecnico di sicomori dei dintorni, ma si rifiutava di possedere una radio. “Sperate che vi avverta, eh? È questo che volete. Volete che vi chiami prima che avvenga la catastrofe. State freschi! Moriremo tutti e moriremo in silenzio!”
Ingaggiarlo per riparare l’albero equivaleva a sorbirsi una concione su “l’assassino lento” come lo chiamava lui: il mare. Mommìa trascorreva gran parte del suo tempo a misurare il livello dell’acqua. Era abbastanza anziano da ricordare la Notte della Prima Onda, quando il mare era salito all’improvviso e aveva sommerso la Marina e Santa Avendrace. Decine di persone, quietamente addormentate nei propri letti, erano morte annegate.
Aveva rimandato la visita a Oja perché, per raggiungere il suo scoglio, bisognava passare accanto ad Argentiera, un posto pericoloso.
Il mare obbligava a rotte ben definite. Quelle accozzaglie di materiale di recupero legato alla bell’e meglio, chiamate barche solo per brevità, potevano rovesciarsi o affondare in qualunque momento. Meglio se ciò avveniva nell’acqua bassa, a mezzo metro dalla terrazza di un edificio su cui posare i piedi.
Aveva appena superato lo scoglio Falletti quando il parafango di destra cozzò contro un ostacolo sommerso. Olì remò per indietreggiare e dall’acqua sbucò una pinna di squalo.
“Mani in alto!” intimò una voce alle sue spalle.
Dietro di lei, tre vecchi a cavalcioni di serbatoi di plastica, le puntavano contro fucili giocattolo gialli e verdi. La voragine nera delle loro pupille la spaventò. Lo squalo emerse, era un complice vestito da sub, con una pinna incollata sul cappuccio della muta. L’uomo si aggrappò a un angolo del frigorifero e lo fece inclinare verso l’acqua, minacciando di rovesciarla. Dietro la lente della maschera Olì colse il divertito scintillio della cattiveria.
I fucili contenevano acqua, tutt’al più piscio, ma i vecchi, privi di inibizioni a causa dell’età, erano ulteriormente eccitati dalle droghe, il cui uso era consentito solo a chi aveva compiuto settant’anni. Le loro reazioni erano imprevedibili. Potevano limitarsi a derubarti ridendo oppure affogarti con la stessa ilarità.
“Dacci tutto quello che hai,” continuò un anziano.
Olì cavò dalla borsa l’orologio che le aveva dato Massimeh e lo posò sulla pala del remo, allungandolo verso i rapinatori.
“È il mio oggetto più prezioso,” mentì.
L’oggetto veramente prezioso era il memocomputer, che portava sempre con sé, arrotolato addosso intorno al busto, sotto il pareo.
Alla vista dell’orologio, i vecchi sgranarono gli occhi e si protesero per afferrarlo, l’uomo-squalo arrivò per primo e Olì ne approfittò per allontanarsi pagaiando in fretta. Li sentì litigare, strillavano come gabbiani.
“Ehi dello scoglio! Oja Mommìa, ci sei?”
Una testa rinsecchita dal Sole, glabra sul cranio e sul mento, si sporse da un varco tra due assi dell’abitazione. Per non perdere di vista lo scandaglio, Oja lasciava che la casa cadesse a pezzi.
“Tre millimetri!” rispose.
“C’è l’alta marea.”
“Tre millimetri non è alta marea! È un segnale!”
In cima alla scaletta arrugginita che conduceva al pontile, Olì fu accolta da una ragazza snella e abbronzata. Per un attimo pensò si trattasse della figlia minore di Oja in visita, poi vide il tatuaggio coi quattro mori sulla sua spalla e capì che era una consigliera del Castello.
“Sono Elis,” si presentò la ragazza.
Troppo tardi per fare marcia indietro.
“Felicissima di conoscerti, Olì. Stavo proprio andando da te, ma mi sono fermata da Mommìa per concordare alcune riparazioni ai sicomori di Castello.”
Olì rimase in silenzio, l’altra aveva sufficienti parole per entrambe.
“Abbiamo fondato un nuovo consiglio comunale. Siamo giovani e pieni di idee. Per cominciare, vogliamo ripristinare la chiatta dei rifiuti. Sarà obbligatorio possedere un bugliolo in cui espletare le funzioni corporee e, ogni tre giorni, la chiatta passerà a ritirare il contenuto.”
Gli abitanti di San Michele si sarebbero puliti il culo con quella regola.
“Noi crediamo nella Bellezza e vogliamo ridare Bellezza alla cittadinanza. Tu sei ancora la nostra “artista comunitaria”. Ero solo una bambina, ma ricordo bene la tua splendida opera d’arte immateriale. In tutto il mondo, artisti del calibro di Paivi o di Timaro portano avanti l’arte trasversale...”
Olì si calcò meglio il cappello di alghe sulla testa. Aveva intenzione di farle una lezione?
“… le suggestioni dei profumi si mescolano alla purezza dei colori del mare…”
Mommìa si scosse dal torpore.
“Il mare! Tre millimetri! Tre millimetri in più rispetto a ieri alla stessa ora!” sbraitò. E, afferrata Elis per un braccio, la trascinò a guardare coi suoi occhi il palo infisso nel fondale, su cui aveva intagliato varie altezze.
Olì si allontanò da loro e camminò sul rumoroso pontile, formato da portiere di automobile, fino all’angolo più esterno, nel quale si trovava ancora il grosso riflettore a batteria organica che aveva montato molti anni addietro. C’erano voluti tre mesi di calcoli, verifiche e sopralluoghi per stabilire le coordinate esatte dei luoghi su cui doveva installare i riflettori. Nei punti in cui il mare era profondo aveva dovuto ancorare una piccola zattera al fondale e sopra ci aveva legato la lampada e i dispositivi che la azionavano. Altri quattro mesi per montare gli apparecchi, remando ogni giorno da un punto all’altro per regolare la triangolazione, aspettando la notte per fare le prove, un fascio di luce alla volta, per non svelare l’insieme dell’opera.
L’aveva intitolata Tempo del sogno.
Olì appoggiò una mano sul riflettore corroso dalla salsedine e sollevò lo sguardo al cielo, come se la sua scultura fosse ancora lì, nel tessuto azzurro del cielo.
Era stata inaugurata la notte di Natale, ventotto gradi di temperatura, debole brezza da sud, stelle chiare e brillanti. La musica e i profumi li aveva composti lei. Tonalità dodecafoniche ricche di impennate sonore e svolte imprevedibili e una miscela preziosa di bergamotto, cisto labdano, iris, rosa e gelsomino negli erogatori a spruzzo. Le essenze erano sintetiche ma l’effetto era stato grandioso.
Dalla sua consolle controllava a distanza ogni riflettore. I fasci di luce colorata si accendevano a tempo di musica, dapprima solo tre crome sul pentagramma e tre nastri rosa in cielo, poi lentamente le figure sonore e lucenti avevano fatto materializzare interi paesaggi, boschi, montagne, nuraghi, colline. Un profluvio di luoghi ormai sommersi, accompagnati dagli odori erbacei che appartenevano loro. Quindi le luci avevano assunto i connotati di animali dimenticati, cavalli, mucche e pecore – centinaia di piccole esplosioni bianche che restavano fisse nel cielo – accompagnate dal pastore. Aveva concluso con il disegno luminoso di Castello, le sue torri candide e squadrate, la bandiera coi quattro mori che fluttuava al di sopra dell’apparizione.
Il gracchiare stridulo di una cornacchia la riportò al presente, un presente senz’arte.
“Ci piacerebbe molto se tu volessi riprendere a creare per la comunità.”
La giovane Elis ricomparve al suo fianco, sciocca e tenace.
“Quale comunità? Ognuno rispetta solo le regole del proprio scoglio. Voi di Castello pretendete che un arcipelago vi obbedisca perché vi chiamate Consiglio Comunale?”
“Qualcuno disse Nessun uomo è un’isola.”
“Sono poco ispirata,” tagliò corto Olì.
“Oh, questo non è un ostacolo. Per noi va bene qualunque cosa tu voglia creare, purché sia bello e ci lasci tutti senza fiato.”
Potrei inventare una caramella che vi resti nel gozzo, pensò Olì.
“Se hai bisogno di strumenti o materiali particolari, puoi presentare una richiesta indirizzata a me…”
“E fallo prima che il mare salga ancora!” aggiunse Oja.”
“Ho tre bei cesti di banane, cara. E ci aggiungo anche due latte di antiruggine, il tuo pontile ne ha bisogno.”
Ancora una volta, Olì squadrò con diffidenza la vecchia che si era presentata al suo scoglio, insieme alla nipote, nel bel mezzo del pomeriggio. Scocciatrice dell’ora più calda, dipinta di blu e bianco, con le pupille troppo brillanti.
“Cosa vuoi da me?”
La vecchia le passò un braccio intorno alle spalle e la allontanò dalla bambina.
“La piccola è sempre triste.”
Olì scostò con decisione il braccio della vecchia e sbirciò la ragazzina. Una lisca di pesce aveva più carne addosso.
“Piange quando c’è da ridere,” continuò. “È colpa di quello stupido ricordo. Tu levaglielo e saremo tutti più contenti.”
Faccetta blu diceva di essere sua nonna, ma Olì sapeva che a volte le neonate erano cedute in cambio di qualche nassa.
“La bambina è d’accordo?”
“Tu fai il tuo lavoro, cara, e sarai ben ricompensata.”
“Ho bisogno di tranquillità. Lasciaci sole.”
“Perfetto! Perfetto!”
La vecchia saltellò verso la scaletta e scomparve. Poco dopo si sentì il ronzio del motore a elastico e il guscio di noce con cui era approdata schizzò in avanti, diretto allo scoglio di Tzugata.
“Come ti chiami?”
“Tilde,” rispose la bambina. “Me lo sono dato da me, l’ho letto su una scatola.”
“Vuoi cancellare il ricordo che ti rende triste?”
Tilde sollevò le spalle.
In effetti la vecchia aveva ragione, la bambina aveva l’aria di chi ritiene che il mondo riservi solo delusioni.
“Be’, diamogli un’occhiata e poi decideremo.”
Fin troppo docile, Tilde si sdraiò sul lettino, si abbassò il costume da bagno e lasciò che Olì le inserisse la sferetta di vetro nell’ombelico.
“Pensa al ricordo che ti intristisce, pensaci con tutte le tue forze.”
Tilde chiuse gli occhi e strinse i pugni. La sfera proiettò immagini confuse. Il cielo popolato di gabbiani si sovrappose a due mani infantili che staccavano patelle dai muri dei palazzi, aiutandosi con un guscio di ostrica affilato.
“Perché i gabbiani ti rendono triste?”
La bambina mantenne gli occhi chiusi.
“Vorrei volare, come loro. Volare via, andarmene.”
Le tremavano le palpebre.
“La Terra è tutta acqua, ormai.”
“A nord.”
Il favoloso nord. Si diceva che oltre il trentesimo parallelo ci fossero campi coltivati e perfino abitazioni costruite su terra asciutta.
“E le patelle?”
“Quando ho fame, nonna mi dice di andare a cercare patelle. Sono scalza e le conchiglie mi fanno male.”
Le superfici mezzo sommerse dei palazzi erano popolate da banchi di cirripedi taglienti. La bambina aveva equivocato la richiesta e le stava mostrando desideri e dolori fisici.
“Tilde, qual è il ricordo che, secondo tua nonna, ti rende triste?”
Le patelle svanirono, i gabbiani scomparvero, il cielo si incupì fino a diventare color piombo. Un rombo lontano e poi l’esplosione del tuono. La superficie liscia del mare si traforò di spilli, poi le gocce diventarono più consistenti e la pioggia scrosciò.
La bambina danzava su un pontile di plastica e, quando rivolgeva gli occhi al cielo, una miriade di frecce argentate convergevano su di lei. Mormorava una canzoncina, schiacciava le pozzanghere a piedi nudi e rideva. Si sfregava la faccia e continuava a ridere.
Olì osservava rapita quell’acqua di cielo, esagerata, vivificante, quasi poteva sentirne la freschezza sulla pelle.
Il giorno del temporale era iniziato come un giorno qualunque, solito caldo, solita bonaccia. Sbuffando sotto il Sole, Olì aveva raggiunto a remi lo scoglio di Tzugata.
Tzugata era sempre in casa, trascorreva la maggior parte del tempo a dondolarsi sull’amaca. Qualunque cosa desiderasse, gli arrivava via mare. Il suo scoglio era un polo magnetico che attirava le altre barche, perché solo lui aveva conservato la principale attività del quartiere, la preparazione della droga, che ricavava da ibridi di licheni.
Ufficialmente i suoi clienti erano gli anziani in cerca di sballo, ma dopo il tramonto l’età degli occupanti delle barche si abbassava come la marea. Dalla balaustra di tek Tzugata sporgeva una canna, a cui era legato un cestino. Dalla barca l’acquirente vi metteva dentro l’oggetto pattuito, cibo fresco, acqua potabile, abbardente, crema solare; a volte erano sufficienti statuine raffiguranti gatti, ogni tipo di gatti, acciambellati, seduti, con la coda ritta, con la testa mobile. Tzugata era rimasto affezionato al ricordo di Perla, la sua compagna di scoglio, una siamese dagli occhi turchesi che pareva comprendere parole e azioni meglio di un essere umano.
Dopo lo scambio, i clienti se ne tornavano a casa, a sognare sull’amaca un mondo meno liquido e meno caldo.
“Posso intensificare il ricordo di Perla,” gli aveva detto Olì dalla barca.
Tzugata si era sollevato dall’amaca.
“Davvero puoi farlo?”
Olì gli aveva mostrato il computer e la magica sferetta di vetro.
“Ogni volta che penserai a lei, ti sembrerà di averla accanto, di poterla accarezzare. Sentirai la morbidezza del suo pelo e l’esatta intonazione del suo miagolio. I suoi occhi ti guarderanno con l’adorazione di un tempo e i polpastrelli ti rimanderanno la sensazione gorgogliante della sua gola che fa le fusa.”
“Cosa vuoi in cambio?”
Olì rimase in silenzio per un attimo, fissando la superficie liscia del mare.
“Ho bisogno di qualcosa che aiuti l’ispirazione. Mi serve un’idea, un’idea brillante.”
“Affare fatto.”
Dopo aver ricevuto il trattamento, Tzugata le aveva dato una scatoletta di tonno.
Olì l’aveva tenuta in mano, perplessa. Era molto leggera. Troppo leggera perché dentro ci fosse davvero tonno.
“Fegato di pesce palla?”
Tzugata accennò un sorriso.
“Mangialo a piccole dosi.”
Tornata al proprio scoglio, Olì aveva aperto la scatoletta. Conteneva uova di pesce, minuscole sfere gelatinose che le ricordavano, in versione ridotta, la biglia che usava per visionare i ricordi. Cercò un cucchiaino nei cassetti della cucina e scovò una scatola di pelle che ne conteneva dodici d’argento, coricati nel velluto. Dimenticanza dei precedenti proprietari.
La mano le tremava, quando portò alla bocca il caviale di Tzugata, tanto che alcune palline rimasero sulle labbra e le dovette spingere dentro con le dita. A contatto con il palato le uova si sciolsero, diffondendo sale e mare. Sedette al tavolo dei progetti, davanti ai disegni di vortici d’acqua musicali e barriere coralline di vetroresina.
Attese, tamburellando le dita sul piano.
Attese, con la matita fra le mani, tracciando segni vaghi e rotondi ai margini dei fogli.
Attese, seduta alla finestra. L’orizzonte era piatto fino alle montagne e dietro i Sette Fratelli sorgeva una colonna di nubi candide.
Le parve che la nuvola, con la sua aria da cattedrale eterea, dovesse dirle qualcosa ma l’idea restava in bilico tra la coscienza e il nulla, uno spettro inafferrabile. L’effetto del caviale era blando.
Tornò alla scatoletta e ingurgitò velocemente l’intero contenuto.
Un reflusso salino le inacidì la gola. Deglutì più volte e sedette nuovamente al tavolo per esaminare ancora una volta le sue bozze, alla ricerca di un’idea artistica per la comunità. Voleva stupirli, come per Tempo del sogno. Voleva realizzare qualcosa di cui si parlasse per mesi e mesi.
Riprese in considerazione gli scarabocchi sul bordo dei fogli. Bolle. Bolle di sapone. Bolle di sapone prodotte da uno strumento musicale… la testa era diventata pesante, dovette puntellarla con una mano. Bolle concentriche le cui convessità riflettevano immagini diverse, pesci guizzanti si sovrapponevano a bambini in girotondo, anatre attraversavano i confini tra i mondi, tagliando le sfere con le direttrici a v delle loro formazioni.
V come vittoria. V come vincitrice. V come…
Olì crollò sul tavolo. Aprì per un attimo le palpebre, senza vedere nulla, ma le sue orecchie registrarono un suono lontano, simile a un colpo di cannone.
La grancassa dei tuoni e gli effetti luminosi dei fulmini avevano accompagnato i primi scrosci, le aveva raccontato Impiastera. Gli abitanti degli scogli si erano affrettati a disporre mastelli, pentole, vasche e bidoni di plastica sui ponti. Massimeh aveva raccolto tanta acqua da poterla barattare; a Castello avevano aperto i boccaporti delle cisterne sotterranee; Impiastera si era spogliata e lavata sotto il diluvio; Oja Mommìa, in piena crisi isterica, si era rifugiato in cima al palazzo, dove teneva sempre un canotto pronto per le emergenze, e aveva trascorso quelle ore a gridare per l’orrore, stringendosi nel giubbotto di salvataggio, vuotando il canotto con un secchio.
Al risveglio, Olì aveva trovato le foglie del susino lucide e brillanti, il ponte lavato, chiazzato di laghetti luminosi.
Quarant’anni che non pioveva. Non aveva mai visto un temporale, l’ultimo risaliva a un’epoca in cui era troppo piccola per ricordarlo. E aveva dormito.
“Sei l’unica a ricordare. Tutti quelli che conosco sono venuti da me a farsi cancellare quella giornata. Vogliono eterni cieli turchesi ed eterni soli splendenti. Impiastera, la mia vicina, mi raccontò che il cielo si era abbassato e le premeva sulla testa.”
“L’acqua dal cielo era bella,” sussurrò Tilde.
“Pioggia. L’acqua che scende dal cielo si chiama pioggia.”
“Pioggiapioggiapioggia,” canterellò la bambina tra sé.
Olì fece ruotare la sfera per mettere meglio a fuoco le immagini che scorrevano sul muro scrostato dell’appartamento. Le gocce formavano un disegno irregolare lungo le pareti nude.
“Allora, vuoi che cancelli?”
“No.”
Tilde si drizzò seduta, la sfera rimase incastrata nell’ombelico ma il ripiegarsi della pancia deformò le immagini, arrotondando i margini e accostando terra e cielo.
“Non voglio.”
“Tua nonna ha detto…”
“Non me ne frega niente. Non so neppure se è davvero mia nonna. Lei e i suoi amici passano il tempo a pescare, dipingere di blu la bocca dei pesci e ributtarli in acqua.”
Questo spiegava i pesci col muso azzurro che qualche volta trovava nelle reti.
“Ungono i pontili di olio di cocco, per ridere della gente che ci scivola sopra. Ingarbugliano le reti dei pescatori e crocifiggono i gabbiani alle boe. Solo perché loro sono stupidi devo esserlo anch’io? La pioggia mi piace. Mi piacerebbe vederla ancora. Dicono che a nord, in certi periodi dell’anno…”
Con delicatezza, Olì rimosse la sfera dall’ombelico di Tilde e la ripulì con un panno morbido.
“Dovrai ridere anche tu, quando tua nonna e suoi amici compiono le loro imprese,” la ammonì. “Altrimenti capirà che non ti ho tolto il ricordo.”
“Sono capace di fingere.”
La bambina saltò giù dal lettino e prese a girare per l’appartamento, incuriosita.
“Cos’è questo?”
Indicò il grande camino rivestito di marmo che occupava un angolo del soggiorno.
“Quando c’era freddo, nelle sere d’inverno, si accendeva un fuoco lì dentro e ci si scaldava tutti insieme, bevendo cioccolata calda e vin brûlé, e si gettavano le bucce dei mandarini tra le fiamme per profumare l’aria.”
La bambina toccò la mensola, esaminò il focolare, infilò la testa dentro e guardò in su, verso la canna fumaria.
“Si vede il cielo!”
Olì ripose il computer nel cassetto e si affrettò a imitarla.
In alto, molto in alto, l’imbuto nero di fuliggine del camino si apriva in un riquadro netto di azzurro.
La bambina era entrata completamente dentro il focolare e, con un’agilità da scimmia, si arrampicava lungo la canna, appoggiando i piedi nudi alle asperità interne.
“Vieni giù, potresti farti male.”
Il fastidio per l’invadenza di Tilde le indurì la voce. Dopo un attimo di esitazione, la bambina ridiscese. Le mani, i piedi, la faccia e il costume da bagno erano neri. E lasciava le orme sul parquet di legno bianco.
“Guarda, disegno una mappa del tesoro!”
La fila di tracce scure faceva davvero pensare ai segni tracciati su una pergamena da un vecchio pirata.
“Eccolo! Ecco il tesoro!” rise Tilde, abbracciando il fantoccio morbido, nascosto dietro la tenda.
“Oh, che soffice!”
La bambina si strinse alla forma umana e quella sembrò contraccambiare, chiudendo le braccia, chinando la piccola testa sul cranio rasato di Tilde.
“Sono qui! Son tornata!”
La nonna era arrivata giusto in tempo a reclamare la nipote. Olì si fece consegnare il pagamento e le osservò allontanarsi. Tilde la fuligginosa, a poppa, usava tutta la sua forza per avvolgere la manovella dell’elastico, con un sorriso falso stampato in faccia, la vecchia a prua, gli occhi vacui, intenta a parlottare con le sue visioni.
La presenza della bambina l’aveva scombussolata parecchio. Si vergognò di sentirsi sollevata che fossero andate via. Stava diventando un’ostrica, come gli altri cittadini?
Olì si svegliò in piena notte. La casa scricchiolava, il vento si stava sollevando. Si alzò e con la torcia elettrica ripercorse le tracce lasciate da Tilde sul pavimento. Un’ombra era accoccolata lungo il percorso, sfregava le assi sbuffando e borbottando. Per ripulire stava usando la sfera del computer e quando si voltò aveva la faccia di un pesce, la bocca sgangherata da un’orecchia all’altra, azzurra come cielo.
Olì si svegliò. Era buio. La casa scricchiolava sbattuta dal vento. La sensazione che stesse per accadere qualcosa le mise una strana frenesia addosso. Raccolse il bucato steso, rigido, prosciugato dal Sole, e chiuse le finestre, anche se l’aria era afosa. Già in passato lo scontro fra i venti caldi e quelli più freschi aveva provocato trombe d’aria e cicloni, ma ora un terrore freddo le gelava la nuca.
Là fuori, nel buio, un gigantesco animale invisibile si stiracchiò, si allargò, prese possesso dell’aria, dell’acqua, della fragile struttura degli scogli. Un soffio repentino, come il fiato emesso di colpo per spegnere una candela, e l’immobilità fermò ogni suono. Olì non sentiva più lo sciabordio delicato del mare al piano di sotto, il tintinnio delle funi metalliche che ancoravano il pontile, lo sventolare diseguale della bandiera coi quattro mori in cima all’antenna corrosa.
E poi il freddo. Un freddo intenso assediò la casa, si infilò sotto le porte, alitò sui vetri delle finestre, glassandole di una materia opaca. Olì si strinse alla scultura, se la legò sulla schiena, le braccia annodate sotto il collo, le gambe intorno ai fianchi. Un piacevole calore le attraversò il corpo, ridandole coraggio, ma la temperatura continuava a scendere.
La casa si contraeva, gemeva sotto la carezza ghiacciata del vento. Olì cominciò a battere i denti. Cercò disperata nei cassetti, ricordava di aver visto, molti anni prima, un berretto di lana col paraorecchie, eccolo! Un oggetto buffo, giallo limone, col pompon in cima. Se lo allacciò sotto il mento e il calore le distese i pensieri, riusciva a ragionare.
Scese al piano inferiore e scoprì che l’acqua dei secchi in cui conservava il pesce era indurita. Rovesciò il contenuto, gli animali erano bloccati in una torre di ghiaccio dalla quale spuntavano code, pinne e qualche alga. Al termine della scala, là dove prima il mare lambiva il marmo, c’era una lastra irregolare, blu scuro. Le metteva addosso una paura che nessun calore poteva dissipare.
E il piccolo Sar dalle otto dita? Era riuscito a rifugiarsi nella tana?
Mentre risaliva in fretta le scale la testa del fantoccio, la noce di cocco, si staccò e rotolò su un gradino producendo un suono attutito dal passamontagna. Olì disfece rapidamente la sua scultura, un piccolo morso di rammarico per la morbida creatura, sciolse i lacci delle giunture, eliminò l’ovatta pressata che dava forma al giubbotto, svuotò i pantaloni e i guanti di lana dalle alghe secche, e si vestì. Il materiale termico sembrava accendersi a contatto con la pelle. Quando infilò il passamontagna sul berretto di lana comprese il senso di protezione che dovevano dare le armature antiche. Nel suo database aveva una cartella dedicata a “rivestimenti di metallo”. In alcune opere anche gli angeli indossavano corpetti e gambiere di ferro.
I piedi, abituati ai sandali, mal tollerarono la morsa degli stivaletti con la suola di gomma, e tuttavia strinse con vigore i lacci.
Tornò di sopra, portandosi appresso il secchio delle aragoste. Aveva fame, una gran fame. Rovesciò il contenuto in una pentola, lo fece bollire sulla piastra elettrica e per la prima volta nella sua vita assaporò le aragoste lesse. Spezzò ogni zampa e ne succhiò avidamente il contenuto.
Rinfrancata dal cibo, aprì la porta di casa, un telaio blindato su cui aveva saldato alcune assi di policarbonato, e mise il naso fuori. Il gelo le schiaffeggiò le guance, le strinse la punta del naso in una morsa. Richiuse immediatamente.
Valutò i pochi mobili dell’appartamento e infine decise per il cesto in cui teneva la biancheria, una sorta di forziere rettangolare di bambù. Svitò le cerniere del coperchio, appiattì gli angoli e lo ficcò all’interno del focolare. Provò a dargli fuoco. Non pigliava. L’accendino anneriva il bordo ma le fibre intrecciate resistevano. Doveva esserci un metodo. Consultò alcune tavole di pittura antica, radunate nella cartella “Fuochi”. L’incendio del parlamento inglese di Turner e L’incendio di Roma non le furono d’aiuto, niente mostrava in quale modo gli antichi accendevano il fuoco.
Mentre osservava le immagini, qualcosa la pizzicò su un fianco. Infilò una mano nei pantaloni, si grattò e tirò fuori un frammento di alga secca. Alghe secche. Ne aveva un bel monticello al centro della stanza. Le trasferì nel camino e le accese. Bruciarono subito, crepitando odore di salsedine e di profondità abissali. Olì ci soffiò sopra e le lingue di fuoco raggiunsero il cesto, che iniziò a sibilare e a lamentarsi.
Dopo qualche minuto il cesto divenne un falò che si allungava verso la canna fumaria in un audace tentativo di fuga. Il calore le punzecchiò la faccia, intenso come il Sole di mezzogiorno. Olì si accoccolò davanti al camino, rapita dall’incantesimo delle fiamme. E così quello era il modo in cui ci si scaldava in passato. Mancava solo la cioccolata, bevanda che non aveva mai assaggiato.
Quando gran parte del cesto si mutò in cenere, Olì attizzò il fuoco con piccoli oggetti di legno, sgabelli, contenitori per insalata, statuette di divinità marine scolpite nei momenti di noia, usando frammenti di legno galleggiante che il mare le portava fino allo scoglio.
Finalmente il Sole fece capolino dietro le finestre bagnate di condensa. Olì si affacciò dalla porta di casa. L’aria era ancora tagliente ma la luce le diede coraggio.
Si sfregò gli occhi, incredula. Il mare era diventato una lastra solida. La barca aveva i bilancieri imprigionati nel ghiaccio e la cassa del frigorifero sollevata verso l’alto, quasi che l’elettrodomestico avesse voluto rimettersi dritto, per ritornare al suo antico utilizzo.
Ammirò il sicomoro, in cima al tetto della casa. L’intreccio conico dei rami rivolti al cielo, pronti a captare ogni minima goccia di umidità, si era trasformato in un nido di cristallo sorretto dalla colonna di ghiaccio del tronco. Una scultura piena di magia.
Discese la scaletta esterna e allungò una mano per toccare il mare. Solido. Duro e compatto come terra. Ci posò la punta di un piede e premette. Il ghiaccio resisteva. Pestò il piede su quel pavimento turchino e percepì strati e strati coriacei sotto le suole.
Azzardò qualche passo, col cuore che le batteva forte. Camminava sull’acqua! Stava camminando sul mare! Si potevano raggiungere a piedi gli altri scogli.
Piena di baldanza, aumentò la falcata dei passi, scivolò e sbattè il sedere per terra. L’imbottitura dei calzoni attutì il colpo ma il coccige le faceva male. Si rimise in piedi e riprese a camminare con prudenza.
Si diresse verso lo scoglio di Impiastera.
L’inquietudine montò a ogni passo perché ricordava che la maggior parte delle abitazioni non possedeva finestre. Giunta sotto il pontile dell’amica, abbassò il passamontagna e la chiamò a gran voce. Il suo fiato si cristallizzava e ricadeva a terra producendo un leggere crepitio.
Nessuna risposta. Si arrampicò su per la scaletta e spalancò la porta. Impiastera era nell’amaca appesa tra due pali segnafondo, nuda sotto il lenzuolo, rigida come pesce secco. Le finestre della casa erano velate da tende di cotone a righe e l’amaca era piazzata in modo tale che la corrente tra le due aperture fluisse giorno e notte. Un’ottima idea contro il caldo, una pessima idea col freddo.
Sopra un tavolo luccicavano cinque piatti glassati di brina, ognuno conteneva lo stesso dolcetto a forma di pesce e di sicuro ogni dolce era una variante della ricetta che l’amica stava studiando. Ogni cosa, lì dentro, era rivestita da una patina gelida.
Due lacrime rigarono le guance di Olì e subito mutarono in bacchette di vetro. Se le staccò dagli occhi perché non riusciva a battere le palpebre.
Il terrore di essere rimasta sola, di essere l’unica sopravvissuta, la fece scappare. Doveva scoprire se qualcun altro se l’era cavata.
Si mise a correre verso l’ospedale, incespicò ma riuscì a tenersi in equilibrio. Riprese a camminare con esasperante lentezza.
“Tutto bene! Dio mi ha protetto!”
Massimeh agitava le braccia e si protendeva da una finestra dell’ultimo piano. Dalla terrazza sopra la sua testa luccicava la coda dell’elicottero, il rosso originario sbiadito nel rosa, come un gigantesco gambero surgelato.
“Mi sono svegliato durante la notte e ho sentito la voce di un angelo. Diceva: Massimeh alzati e copriti! Ho preso tutte le coperte che ho trovato, ma non bastavano, stavo tremando. Allora sono sceso in Terapia Intensiva e ho cercato un farmaco che mi aiutasse.”
“E l’hai trovato,” rispose Olì, lieta di poter parlare con un altro essere umano.
“Dio sapeva cosa sarebbe successo e aveva previsto che ne avrei avuto bisogno.”
Le mostrò alcune siringhe monouso, sigillate in buste di plastica, cariche di liquido paglierino e poco dopo Olì lo sentì scendere per le scale con un gran trambusto metallico. Massimeh trascinava una barella, carica di coperte sottili e lucenti.
“Vengo con te. Devo portare il Dio della salvezza a tutti.”
Da quando l’elicottero si era fermato, accoglieva i fedeli nel grande scoglio dell’ospedale, ma evitava di spostarsi. Il ghiaccio stava cambiando le cose.
Il predicatore indossava un abito rudimentale, ricavato dalle coperte. Olì palpò una manica.
“È troppo sottile.”
“Ma caldo, molto caldo! L’ho cucito stanotte con filo per sutura n. 3. Dio mi ha ispirato.”
Le gettò sulle spalle uno di quei teli e nel giro di pochi secondi Olì si sentì avvolta da un calore intenso. Doveva essere un filato speciale, che raccoglieva i raggi solari e li usava per generare calore.
Per scivolare sul ghiaccio, Massimeh si inginocchiò sopra la barella, spingendola con un palo da flebo. Olì sedette all’altra estremità. Le ruote di gomma avanzavano senza slittare.
Per prima cosa andarono verso i tetti delle vongolaie.
I fili tesi fra i muretti sembravano le righe di un quaderno, tracciate sul foglio bianco del ghiaccio. I gusci neri delle cozze erano parole sbavate, incomprensibili. Olì bussò alla porta di una terrazza e Monia aprì uno spiraglio. Batteva i denti, avvolta in una maglia di cotone, il pareo intorno alla testa, il volto e le mani lividi.
“State bene?”
“Siamo vive. Abbiamo chiuso le finestre in tempo e bruciato la corda delle vongole per scaldarci.”
Dalla casa fuoriusciva un forte puzzo di frutti di mare arrostiti.
Le lasciarono tre coperte, una benedizione e proseguirono.
Lo scoglio di Tzugata faceva presagire il peggio. Il suo appartamento era un tetto sorretto da quattro pilastri, sulla terrazza a livello crescevano le palme da dattero, le fronde paralizzate nell’aria tersa simili a grandi stelle verdi.
Si aggirarono nella casa, fra statuette di gatti e cuscini sbrindellati, chiamandolo a gran voce. La risposta giunse da un piccolo schermo inserito in una parete.
“Cosa volete, scocciatori?”
“Tzugata, dove sei?”
“In un posto sicuro. Cosa volete?”
Olì si avvicinò allo schermo. Era un monitor a circuito chiuso e mostrava il corpulento padrone di casa a mollo in una vasca da idromassaggio. La temperatura dell’acqua, a giudicare dal fumo che saliva, doveva essere simile a quella di un brodo.
Olì si diede della stupida. L’avrebbe dovuto immaginare che un uomo ricco come Tzugata possedesse un rifugio per resistere a qualunque intemperie. Probabilmente l’appartamento di superficie era solo la facciata, una botola nascosta conduceva ai piani inferiori, attrezzati con ogni sorta di comodità.
Si rimisero in cammino.
Poco più avanti trovarono un pescatore armato di piccone. Frantumava il ghiaccio e lo raccoglieva in secchi di plastica. Pesanti stivaloni di gomma lo ricoprivano fino a metà coscia, ma da lì in su indossava soltanto un pantaloncino e una maglietta.
Massimeh gli gettò sulle spalle una coperta di Dio, ma l’uomo se la scrollò di dosso.
“Ho caldo,” bofonchiò.
“Stai affaticando il cuore,” gli rispose il predicatore. “Hai bisogno di scaldarti.”
“Andate via, mi fate perdere tempo.”
E vibrava colpi più decisi, facendo schizzare frammenti in tutte le direzioni.
“Mi serve il ghiaccio. Mi serve per conservare il pesce.”
“Il pesce ormai è congelato,” disse Olì.
Il pescatore continuò a borbottare tra sé e a riempire i secchi.
Massimeh insisteva che accettasse almeno una coperta, l’altro gli rivolse un’occhiata da folle e lo minacciò col piccone.
“È dura fare del bene,” commentò il predicatore.
Un’esplosione li fece dirigere verso la secca di Monte Claro.
A metà strada incrociarono lo scoglio di Oja Mommìa. Inalberava un lenzuolo ripartito in quattro settori; su due riquadri erano rozzamente dipinte le torri bianche della città e sugli altri due la curva di un’onda gigante, barrata da una x.
Mommìa, rivestito di una muta da sub nera e gialla, saltellava tutto contento intorno al sicomoro.
“Sei finito!” gridava al mare ghiacciato. “Ti abbiamo battuto! Non puoi fare più nulla!”
E rompeva soddisfatto le piccole creste congelate delle onde con la punta del misuratore di profondità.
Un’altra esplosione e nel cielo sbocciarono i fiori rossi e verdi dei fuochi d’artificio.
“Urrà! Urrà!” gridò Oja.
All’altezza del cocuzzolo diroccato chiamato La Biblioteca, un gruppo di anziani forava il ghiaccio con delle barre elettriche a batteria e vi inseriva fuochi d’artificio grossi come candelotti di dinamite. Coperti da pellicce sintetiche, si erano dipinti le facce di rosso, di nero e di bianco, danzavano in cerchio, facendo tintinnare le cavigliere al suono dei tamburi percossi da ragazzini e ragazzine tremanti.
“Oggi fa caldo, eh!” gridava euforico un uomo dipinto per metà di rosso. Con una sorta di grossa pistola sparava in aria razzi che scoppiavano a pochi metri da terra, ricadendo sotto forma di coriandoli dorati e argentati. I vecchi ballavano euforici nel turbinio scintillante e i tamburini piangevano dal freddo, senza smettere di pestare, cercando un po’ di calore nel ritmo convulso delle braccia.
Olì riconobbe nel gruppo la nonna di Tilde, il viso per metà dipinto di blu. Faceva un girotondo con i compagni, muovendo freneticamente i piedi. Il suo gruppo indossava maschere a forma di testa di pesce, branchie di plastica trasparente tesa su stecche di legno, pinne aguzze sulla schiena.
“Oggi fa caldo, eh!”
La danza diventò più veloce. I vecchi calzavano pesanti scarponi da montagna ma le gambe erano nude, ricoperte di vene varicose, arrossate dal freddo.
Olì si mosse alla ricerca di Tilde. Non era tra i suonatori di tamburo. Cercò fra i muri della biblioteca che emergevano dal ghiaccio, ricoperti di patelle e alghe annerite dall’abbassamento della temperatura. La trovò raggomitolata sotto un tetto spiovente, orlato di sottili ghiaccioli opachi, vestita del solo costume da bagno, un tamburello abbandonato ai suoi piedi. Strisciò fino a lei e la avvolse in due coperte ospedaliere. Tilde neppure se ne accorse, rimase paralizzata con la fronte contro le ginocchia, le unghie blu e la pelle cianotica. Le massaggiò la schiena e le braccia. Era così rigida! Forse il cuore aveva ceduto e stava tentando di rianimare un cadavere, invece dopo qualche minuto la bambina sollevò la testa e le rivolse lo sguardo torbido di chi si risveglia dal sonno.
Un’esplosione più forte delle precedenti le investì di cristalli ghiacciati. I vecchi esultarono, un enorme petardo, rimasto incastrato nel ghiaccio, aveva aperto una breccia nella distesa rigida del mare e subito si affrettarono ad allargarla con le bacchette calde, rivelando l’acqua sottostante, cupa e ferma.
“Oggi fa caldo, eh!”
“Allora fatti il bagno,” replicò una donna.
Senza pensarci due volte, l’uomo si tuffò a piedi in avanti nella buca.
“Facci posto!” gridò un altro.
“Anche noi al Poetto!”
Massimeh andava dall’uno all’altro, cercando di impedire loro di gettarsi in acqua, ma quelli lo scansavano e si precipitavano divertiti nella breccia. Anche la nonna di Tilde seguì il gruppo dei tuffatori, agitando un ventaglio di scaglie colorate. Pochi secondi dopo aver toccato l’acqua i sorrisi si tramutarono in un ghigno contratto delle mascelle. I vecchi dementi si inabissarono nell’oscurità vetrosa, le braccia lungo i fianchi, il corpo intirizzito dal repentino congelamento, senza emettere un lamento.
Quelli che erano rimasti all’asciutto, dopo un attimo di incertezza, scoppiarono in una risata ebete.
Massimeh aveva afferrato un uomo immerso a metà e tentava di riportarlo sulla banchisa.
“Aiutatemi!” gridava.
Gli altri continuarono a lanciare petardi, danzare e scuotere le cavigliere. I suonatori di tamburo si erano fermati, indecisi, ma con una pappina alla nuca i vecchi gli imposero di continuare. Olì portò Tilde alla barella e la ricoprì con tutte le coperte rimaste.
Massimeh era riuscito a trascinare l’uomo all’asciutto e gli stava puntando una siringa al collo.
“Nel cuore, nel cuore,” suggerì Olì.
Il predicatore gli trafisse il petto e premette lo stantuffo.
Dopo qualche secondo il vecchio tossì, sollevò il petto e prese un gran respiro.
“Dio è grande.”
Massimeh alzò gli occhi e le mani al cielo ma un attimo dopo il vecchio, barcollando, si ributtò nell’acqua gelida.
Olì decise che ne aveva abbastanza di idioti e idiozie. Obbligò i ragazzini a smettere di suonare e li fece avvolgere nelle coperte.
I vecchi tentarono di fermarla, volevano ancora musica, ancora danze, ancora botti. Olì rispose picchiandoli con le bacchette dei tamburi, una donna tentò di morderle un braccio, Massimeh dovette staccargliela di dosso.
L’arrivo dei motoscafi comunali scompaginò il gruppo dei festaioli.
Le barche erano issate su carrelli con le ruote, trainati da piccoli cingolati. Olì riconobbe Elis nella figura ammantata che si trovava a prua. L’equipaggio scese e fece bere ai ragazzini fil’e ferru caldo diluito con acqua, prima di farli salire a bordo. Olì era curiosa di vedere come avrebbero convinto quei pazzi a coprirsi ma la squadra di soccorso si limitò a spruzzargli sopra una schiuma termica. Si appiccicava alla pelle e sviluppava un gradevole tepore, isolando il corpo, mentre quelli continuavano a dimenarsi e danzare.
Erano in giro dall’alba, le raccontò Elis. Gli appartamenti dello scoglio Cadello, di Armi e di Studenti non avevano finestre, gli abitanti erano morti dal freddo, stecchiti nelle loro amache durante il sonno. Invece la piccola famiglia che risiedeva allo scoglio Magistero era salva, grazie all’abitudine di mantenere chiuse le finestre a nord, per contrastare le ondate dovute al passaggio delle imbarcazioni a tutta velocità.
Aveva saputo via radio che i suoi colleghi avevano trovato altri sopravvissuti all’atollo Cep e al Quartiere del Sole.
Massimeh chiese alla consigliera di portarlo con loro. La barella era troppo pesante da spingere, Olì requisì un tamburo, ci fece sedere sopra Tilde e lo trascinò sul ghiaccio tirandolo per le cinghie con cui i suonatori lo appendevano al collo.
“Torno al mio scoglio.”
“Come hai perso la gamba?”
Murena sollevò la gamba sinistra: dal ginocchio al piede era liscia, bianca, completamente sintetica, l’inserzione della rotula scompariva dentro il pantalone corto e sfrangiato.
“Bella eh?” rispose bussandoci sopra con le nocche. “Uno squalo mi ha aggredito mentre pescavo. È una storia da raccontare ai nipoti.”
“Dimmi la verità.”
Murena si guardò intorno, circospetto. Precauzione inutile poiché erano soli soletti sullo scoglio di Olì.
“Gua’, a te lo dico perché tu sei come il medico. Quando c’è stato il Grande Gelo ho fatto una scommessa con un vicino di casa, a chi riusciva a tenerla più a lungo nell’acqua fredda.”
Olì annuì. Aveva sentito ogni sorta di storia strampalata, durante gli ultimi giorni, mentre il ghiaccio si scioglieva e il mare ritornava navigabile.
“Ho vinto io ma è diventata nera e me l’hanno dovuta tagliare.”
“Mi dispiace, Murena, non mi occupo più di abbellimenti della memoria.”
“Cosa vuol dire?”
“Vuol dire che ricorderai la scommessa.”
“Ma io voglio dimenticare. Voglio anche che mi cancelli i ricordi del Grande Gelo. Quel bastascio di Curcaio è riuscito a riempirsi un magazzino di ghiaccio e ora vende pesce surgelato facendolo passare per fresco. Anche questo voglio dimenticare.”
“Ho deciso che ricordare è meglio che dimenticare.”
“Ti do una cassa di aragoste.”
“Surgelate, immagino. No grazie.”
“Due casse.”
“Sei fortunato, Murena. La gamba ti ricorderà per sempre il Grande Gelo, il giorno in cui hai potuto camminare sul mare. Questa è la storia da raccontare ai nipoti.”
Murena si avviò alla porta con risentito sussiego. Sulla soglia si voltò.
“Potrei dire che durante il Gelo non avevamo da mangiare e mi sono tagliato la gamba per arrostirla!”
“Perfetto.”
Il pescatore uscì gonfio di ritrovato orgoglio.
Olì ritornò al tavolo sul quale erano sparsi gli elementi della sua nuova opera artistica: il binocolo freddo. Usando frammenti di vetro levigato dal mare, aveva riprodotto i riflessi della luce solare sul ghiaccio. Ruotando le ghiere degli oculari si poteva osservare un paesaggio marittimo che mutava lentamente, i colori cambiavano dalla gamma degli azzurri a quella dei grigi; nuvole scure prendevano possesso del cielo, il mare si corrugava, le onde si sollevavano inquiete. Tilde le aveva suggerito di inserire il rombo dei tuoni e così, da un piccolo microfono laterale, si potevano avere anche gli effetti sonori, uguali in tutto e per tutto a come li ricordava la bambina. Il brontolio dei tuoni lasciava il posto a un crescendo di vento che ghiacciava il mare, producendo quel suono di cristallo rappreso che Olì aveva custodito nella memoria da quella notte.
L’effetto gelido era acuito dall’inserimento, negli oculari, di alcuni cristalli di mentolo che facevano lacrimare gli occhi quando il binocolo era inforcato sul naso.
Persistenza della memoria era il nome del suo nuovo progetto artistico.
Copiato da Dalì, ma tanto nessuno lo avrebbe saputo mai. Il comune le aveva commissionato un centinaio di binocoli freddi; l’avrebbe pagata con frutta e oggetti da barattare.
“Olì!”
Si affacciò sul pontile. Tilde era in piedi sopra una tavola da surf, il remo dritto davanti a sé.
“È tutto pronto.”
Olì guardò a ovest, il Sole era quasi svanito dall’altra parte delle montagne, il mare rifletteva il cielo viola, striato di rosso e d’oro. Piccoli, irregolari iceberg rompevano la monotonia della distesa d’acqua. Un gran numero di imbarcazioni attendevano, ferme a est, a pochi metri dal suo scoglio. Ogni zattera, legno o tavola ospitava almeno due cittadini. Sui motoscafi comunali era allineato l’intero consiglio cittadino.
Prima di uscire da casa Olì si infilò giacca e pantaloni. L’aria era ancora pungente. Sedette sopra il surf di Tilde e si fece accompagnare allo scoglio di Impiastera.
Il corpo dell’amica era stato disteso su una canoa, imbevuto di nafta e ricoperto di fiori di ibisco rossi. Con gesti larghi e solenni, in modo che tutti vedessero, Olì accese una torcia di legno impregnato e la posò sul petto di Impiastera. Poi tagliò l’ormeggio e la canoa scivolò verso il tramonto. Aveva calcolato bene le correnti e la direzione del vento. La pira si alzò lentamente e rivaleggiò con le fiamme del cielo.
La barca si stagliò contro il fondale scuro dei monti, isola di fuoco tra isole di ghiaccio, nella calma profonda del tramonto. Tilde soffiò in una conchiglia e un triste muggito percorse il quartiere, una nota lunga e profonda annunciava la fine, presagiva la fine, accompagnava la fine.
Molti anni dopo i cittadini ricordavano ancora quel giorno, un momento nelle loro esistenze operose e sempre uguali, in cui vita, colori, profumi, caldo, freddo, aria e acqua si erano fusi in un’opera di cui loro stessi avevano fatto parte.