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Niente è più pericoloso per te

della tua famiglia,

 della tua stanza,

del tuo passato.

André Gide

 

C'è un momento, nella vita di ogni essere umano, in cui i tratti del volto assumono un'aria indefinita; diventano un guazzabuglio di linee poco marcate, indecise sulla direzione da prendere, una confusione sospesa tra ciò che non è più e ciò che deve ancora diventare.

Volja si trovava precisamente in quel momento.

Come un pesce nell'acqua, io e te abbiamo un discorso in sospeso.

Roxane aveva scritto una frase alla lavagna elettronica e ne spiegava l'origine tirando in ballo regressioni ancestrali ed etimologie arcaiche.

Volja si sforzava di ascoltarla. Di solito la sua voce, ricca di note basse che vibravano intorno ad armoniche ampie e voluttuose, gli dava un fremito dietro il pomo d'adamo, come un nugolo di piccole farfalle in agitazione. Ma un'altra frase l'aveva ipnotizzato.

Nada y pues nada y nada y pues nada, era stampato sulla maglietta di Roxane.

Volja cercò di ritornare nel qui e ora facendo scorrere le dita sul cuscino accanto al suo. Le gradinate della platea erano rivestite di canapa biologica. Liscia, pulita, nuova fiammante.

Ogni volta, insieme ai compagni, si sedeva in punti differenti della platea e il tessuto non presentava mai segni di usura. Lì dentro gli unici a consumarsi erano loro.

Decidere dove sedersi gli dava l'impressione di poter scegliere. Serrò i denti. Le loro scelte si erano ridotte al prendere posto su cuscini diversi.

Maisondieu e Orìga ascoltavano compunti. Queen Theo emetteva un forte odore di sottobosco, corteccia umida, muschio, ciclamini e foglie verdi, che Volja aveva imparato ad associare alla perplessità. Gli capitava spesso di condividere le stesse emozioni di Theo.

Nada y pues nada y nada y …

Non c'era scampo. Pesci, discorsi, silenzi, tutto uguale, tutto nada.

Maisondieu chiese la parola e Roxane gliela accordò con un battito di ciglia.

“I pesci siamo noi?”

Certo, perché i pesci non possono scappare, pensò Volja.

I compagni si aggrovigliarono in una discussione su metafore, simboli e semantica dell'interpretazione. Queen Theo mandò giù una sorsata da una delle fiaschette che portava appese al collo e il suo odore mutò in un profluvio di fiori bianchi. Volja lo aspirò e la collana di nada y pues nada passò via, come un pesce intravisto sott'acqua.

“Il romanzo postumano deve essere frammentario. Siamo toccati dal singolo tassello del mosaico, ma il mosaico esiste soltanto nella nostra mente” concluse Roxane.

Un doveroso clap-clap, nella grande sala vuota, suonò come sparute gocce di pioggia su una lastra di lamiera. I sensori della colonnina lo captarono e ci aggiunsero un finto, scrosciante applauso, come se le gradinate fossero piene di gente.


Nel vestibolo trovarono il dono: due libri elettronici. Fluttuavano in aria, squadernati, luminosi, fitti di parole, note a piè di pagina, citazioni virgolettate. Roxane li sfogliò e il suo volto si accese di gioia.

“Il trattato di Brazilovich su umorismo ed ermeneutica!”

Ogni volta che qualcuno di loro rendeva partecipi gli altri dello stato della propria arte, i Benefattori gli lasciavano un regalo. Roxane risucchiò i libri nel suo lettore, un anello d'oro che portava al pollice sinistro.


Il pranzo compariva sui tavoli già apparecchiati della sala Ambra, al primo piano dell'albergo.

“Come farai quando avrai il romanzo definitivo?” stava dicendo Maisondieu. “I Benefattori non ti regaleranno più niente.”

“Sono ben lontana dal romanzo definitivo” replicò Roxane, sedendo a capotavola. “Per mia fortuna. Noi amiamo solo la strada e il cammino.”

“E come mai, allora, abbiamo i culi incollati alle sedie?”

I compagni rivolsero lo sguardo a Volja e lui per timidezza abbassò la testa ma si obbligò a continuare.

“Da quanto tempo siamo qui? Cinque anni? Dieci anni? Io ho perso il conto. E cosa facciamo qui?”

“La migliore cosa possibile” rispose Maisondieu. “Realizziamo noi stessi.”

“Non vi viene mai il dubbio … perché proprio noi, perché in questo posto? Chi sono i Benefattori?”

“Ah, è una crisi spirituale” commentò Orìga. “Volja caro, dovresti oziare meno e lavorare di più.”

“Mi stai dicendo che devo produrre?”

Un brivido di orrore percorse la tavola.

“Accidenti! Quando sei di questo umore capisci tutto alla rovescia. Dico che la tua concentrazione dovrebbe essere rivolta al tuo lavoro, solo il  lavoro è importante.”

Gli altri approvarono annuendo.

Volja si fissava i pugni posati sulle cosce, sotto la tavola. Artisti dello sbadiglio! Non c'era nessuna arte da portare avanti. Non dentro quell'albergo mai abitato. Pesci nella boccia, ecco cos'erano diventati. Credevano di stare nel mare ed erano dentro un acquario.

Un leggero ronzio accompagnò l'uscita dei bracci meccanici dalla parete accanto alla tavola. Le dita metalliche servirono le pietanze.

L'aspetto del cibo, come al solito, era invitante; i profumi sollecitavano la salivazione. Si scambiarono occhiate di gratitudine e di apprensione.

Volja afferrò il cucchiaio e si gettò sulla zuppa. La mandò giù velocemente, con rabbia, come se fosse stata un nemico da distruggere.

Dopo il pasto si spostarono nella sala Giada.

Giocavano a carte, leggevano, facevano vagare pensieri e occhi sull'affresco variopinto del soffitto, che mutava di continuo; cercavano forme conosciute nella confusione di linee e macchie di colore, ma nessuno di loro lo avrebbe ammesso. Amiamo l'astratto, soltanto l'astratto.

Si spiavano a vicenda, pronti a cogliere qualunque segnale anomalo.  Un colpo di tosse li faceva sussultare, uno sbadiglio rumoroso attirava l'attenzione, il battito nervoso di un piede accelerava il cuore. Se qualcuno si assopiva nella poltrona, gli altri restavano vigili, controllando che respirasse.

Trascorse due ore estenuanti, digerito il pasto, si separavano. Ognuno tornava nella zona dell'albergo in cui aveva scelto di abitare, e non si rivedevano più per intere settimane.

Volja aveva occupato le camere dell'ala sud. Cambiava stanza da letto a seconda dell'umore, a est per vedere l'alba, a ovest se voleva contemplare la ruggine del tramonto. In ogni caso, niente al di sotto dell'ottavo piano.

Stare in alto gli aveva regalato una grande serenità. Ma da un po' di tempo l'odore di pulito gli dava la nausea e la percezione delle camere vuote, divise dalle pareti, come  cellette in un favo abbandonato, gli faceva tendere le orecchie.

Si lasciò cadere rassegnato sul divano e la lampada sopra il tavolino si accese. Nel paralume, dalla parte interna, si trovava una scritta.

Quello che hai avrai.

Ah, grazie. Bella prospettiva.

Le lettere erano state tracciate in modo che si potessero leggere dall'esterno, come se un omino piccolo piccolo si fosse arrampicato con una scala piccola piccola dentro il paralume e avesse dipinto le parole con un pennello, usando una vernice nera.

Lo scambio di messaggi tra Volja e i suoi misteriosi interlocutori andava avanti da qualche tempo.

Una notte si era svegliato preda di un incubo. Le luci si erano accese non appena aveva allungato un piede fuori dal letto, ma non l'avevano rassicurato. La stanza emanava un'asettica vastità, la moquette sembrava fresca di posa, le tende sciorinate in quel momento, i cristalli senza una rigatura.

Nessuno aveva mai abitato quel luogo, e nessuno lo abitava anche in quel momento. L'angoscia di essere uno spettro gli strizzava lo stomaco. Si era alzato e si era messo a pisciare in mezzo alla camera, ruotando su se stesso per dirigere il getto verso ogni angolo, sull'elegante lampada da tavolo, sulla scrivania di finto legno, così ben riprodotto da sembrare vero, sul divano rivestito di velluto a righe, sul pouf.

Aveva ripreso sonno con il miasma acido dell'urina nelle narici e la mattina dopo la moquette era asciutta, la lampada pulita, il divano appena uscito dalla fabbrica.

“Dannati bastardi! Venite fuori! Lo so che ci siete!”

Aveva sollevato una sedia e spaccato le abat-jour accanto ai letti, strappato le tende, spezzato la porta del bagno. Con l'asta di metallo della cabina armadio aveva infranto gli specchi e la colonnina di controllo dei supporti multimediali.

In un cassetto si trovavano sigari e fiammiferi; aveva dato fuoco ad alcune riviste e le aveva gettate sui materassi, la fibra naturale si era incendiata rapidamente.

L'allarme antincendio gli fracassava i timpani, mentre usciva ansante dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sé. Il piano comprendeva venti camere e Volja ne scelse una dalla parte opposta del corridoio. Erano tutte uguali, a parte le sfumature dei colori sui toni del verde e del blu. Entrò nel bagno, si fece una doccia di vapore e sotto il getto nebulizzato si mise a ridere. Gliel'aveva fatta vedere. Di sicuro non si aspettavano una reazione del genere.

Si stava asciugando davanti allo specchio quando notò alcune lettere tracciate sulla superficie riflettente. Il vapore faceva comparire una frase.

Non giudicarti.

Da quanto tempo era lì? Chi l'aveva scritta?

Pensò fosse un'incursione letteraria di Roxane. Doveva essere salita fin lassù senza che lui se ne accorgesse, magari una settimana prima, o un mese prima. Aveva fatto scorrere il vapore, scritto la frase usando la punta del dito indice, e poi se n'era andata. Tipico di Roxane lasciare segni letterari in luoghi imprevedibili.

Eppure la cosa lo inquietava.

Non ne aveva parlato con i compagni, tantomeno con Roxane. E non era più tornato nella camera devastata. La 802 era diventata tabù. Dalla volta, quando era nervoso, Volja saliva fino al quindicesimo piano e si sfogava nella palestra.

Attivava la funzione sparring partner e i bracci meccanici gli allacciavano i guantoni. Prendeva a pugni il sacco che penzolava dal soffitto finché il sudore gli velava gli occhi. Poi si chiudeva nella doccia e si faceva avvolgere dalle nuvole calde e profumate. A volte si masturbava e il vapore diventava una moltitudine di mani tiepide che lo accarezzavano lungo ogni curva.

All'inizio – quanto tempo prima? − dopo una cena particolarmente stimolante per cibo e conversazione, Roxane, Maisondieu, Origa, Queen Theo e Volja si incontravano nella saletta Ametista. Si scambiavano calore, saliva, tensioni muscolari e umori corporei, ma erano inquieti, pronti a scattare, carichi di paure e ansie. Volja si guardava dal di fuori, come un estraneo. Gli sembrava di agire per compiacere qualcun altro. Forse i Benefattori.

Anche i compagni dovevano aver vissuto la stessa emozione perché,  senza mettersi d'accordo, gli incontri si erano diradati ed erano scomparsi del tutto. Per Volja l'albergo era diventato ancora più impersonale.


Ogni tanto andava a leggere sulla terrazza del sesto piano.

La lettura era una scusa. In realtà ci andava perché c'era il bar. La lista dei cocktail era infinita e lui li aveva provati tutti, dalla A di Aurora boreale (ghiaccio, vodka e batteri iridescenti) alla Z di Zio Paperone (whiskey, caffè e monete di cioccolato rivestite di foglia d'oro), per tornare poi ai buoni, vecchi classici.

“Fammi un Negroni” disse al barman meccanico e i bracci che sporgevano da sotto il bancone si misero all'opera.

Si portò il bicchiere fino al tavolino sotto un ombrellone e vagò con lo sguardo verso l'orizzonte. L'albergo era così antiquato e mal progettato da non avere neppure un albero intorno. Una distesa piatta di erba innaturalmente verde brillante, uniforme, che non cresceva mai e non diminuiva mai, ricopriva dossi e vallette fino alla linea di congiunzione tra cielo e terra. Una strada elettrica, gomma nera solcata da due bande parallele d'acciaio, costeggiava l'hotel e se ne andava verso l'infinito opposto.

La strada da cui lui stesso era giunto. A piedi. Stanco, affamato, abbattuto.

Qualcosa si mosse in lontananza. Volja mandò giù un altro sorso del cocktail e socchiuse gli occhi. Troppo distante per capire se si trattava di un gioco della prospettiva o uno scherzo della luce.

Rizzò la schiena. Non si era sbagliato, qualcosa avanzava sulla strada. Giornata fortunata! Un buon Negroni e un diversivo su cui lambiccarsi il cervello.

Mezz'ora dopo aveva capito che la figura lontana era un essere umano. Due ore dopo gli sembrava perfino di conoscere quel modo di camminare. Doveva essere un effetto dell'alcol. Cominciò a passeggiare in tondo, dando calcetti alle sedie, ai tavolini, alle basi degli ombrelloni, per costringersi a non guardare. Ma poi guardò e prese l'ascensore per scendere al piano terra ad accogliere la visitatrice.


Le porte di cristallo dell'ingresso si aprirono e la donna entrò con passo deciso. Portava sottili calzari da maratoneta, una tuta sportiva color cielo di tessuto mangiasporco, un largo cappello a 8 e un bastone segna percorso, che lasciava una traccia invisibile lungo i sentieri e impediva di smarrirsi.

La donna aprì la bocca e Volja la fermò, sollevando un braccio.

“Niente nomi di nascita. Ora sono Volja.”

“Divertente” replicò lei. “Mi devo dare un nuovo nome anch'io?”

“Un soprannome.”

“Hai trovato te stesso?”

“Forse, ma non so se mi piaccio. E tu, sei venuta a cercarti?”

“Volevo parlarti.”

“Ah sì? L'elite ha bisogno di me.”

“Puoi chiamarmi Lelit.”

E Lelit fu. Sotto la polvere della strada era ancora radiosa come l'immagine che Volja conservava nel suo cuore, identica alla donna piena di idee con cui aveva formato la coppia più creativa della Multiversità.

La condusse sulla terrazza del sesto per mostrarle con un certo orgoglio le lussuose comodità dell'albergo. Lelit accettò soltanto un bicchiere d'acqua con un pizzico di sale e si lasciò andare sopra una sedia, esausta ma sorridente.

“Ti sei sistemato proprio bene.”

“C'è tutto tranne l'essenziale” rispose Volja con un gesto frivolo della mano.

“Ah, ora ti riconosco davvero! L'eterno scontento.”

Volja ci rimase male ma accettò la verità di quel ritratto.

“Anche tu, però, se sei arrivata fino a qui …”

Lei sorseggiò l'acqua e abbassò le ciglia.

“Mi sono accorta che passavo il tempo a mettere in fila gli oggetti sulla scrivania. Sai com'è, la Multiversità non ti sta col fiato sul collo e tu puoi sonnecchiare su quello che hai già fatto.”

“La Multiversità è un pollaio e noi le sue uova.”

“Ero pronta a rompere il guscio. Un giorno è venuto a cercarmi Liorka, ti ricordi di lui?”

“Chi se lo dimentica. Sempre Capo Sviluppi?”

“Promosso a Direttore delle Tecniche Profonde.”

“Profondo quanto un ripiano” sogghignò Volja.

“Insomma, un pomeriggio sento la voce di Liorka dal fondo del corridoio e non ho nessuna voglia di parlarci. Vuole coinvolgermi in un progetto sulle energie alteralter, mi ha tempestato la casella postale di proposte e io ho fatto finta di niente.”

“Energie alteralter?”

“Alternative alle alternative. Stanno provando a spingere oltre la sperimentazione.”

Volja annuì, lieto di essere scappato.

“Quindi, cosa hai fatto? Ti sei nascosta sotto la scrivania?”

“Peggio! Mi sono chiusa in bagno e ci sono rimasta per il resto della sera. Una situazione ridicola. Ho passato il tempo a leggere tutto quello che c'era sulle pareti. Una frase diceva: niente è più pericoloso per te della tua stanza, della tua famiglia, del tuo passato.”

Volja trasalì. Il potere dei Benefattori si estendeva sino alla Multiversità? Ma no, si trattava di una citazione scritta da un graffittaro senza fantasia.

“È stato allora che ho capito” continuò Lelit. “Dovevo andarmene.”

Un'esplosione fece tremare i bicchieri posati sul tavolino. Si voltarono nella direzione del suono per assistere al crollo di un angolo della torre est. Vetri e calcinacci caddero sul prato sottostante, lasciando aperto un varco irregolare, quasi un morso nel parallelepipedo dell'edificio.

“Tutto a posto” ammiccò Volja. “Maisondieu sta realizzando il suo progetto. È un architetto delle rovine.”

Un secondo botto, meno forte del primo, proiettò una nuvola di polvere e detriti fuori dalla prima apertura.


“L'ascensore è stato l'intervento più complicato.”

Maisondieu si sollevò verso il soffitto, la sedia da paraplegico sbuffò due colonne di vapore e rimase a mezz'aria mentre lui illuminava la cavità oscura dell'ascensore con una torcia elettrica.

“Volevo che desse la sensazione di un luogo da esplorare e che, nello stesso tempo, facesse pensare a tecnologie obsolete. Ho pensato di riempire la buca di detriti, ma non ce n'erano a sufficienza.”

Roxane, Orìga e Volja allungarono il collo per cercare di scorgere il fondo della voragine. Queen Theo gironzolava per il corridoio disastrato, affascinata dalle lampade a gas, lasciandosi dietro una scia di approvazione al profumo di spezie. Lelit scrutava con diffidenza il contenuto dei posacenere di ottone allineati lungo il corridoio.

“Ho risolto incastrando un pannello di vetroresina cinque metri più in basso e ricoprendolo di stracci bruciati e cenere.”

“A me sembra di vedere anche delle ossa” disse Orìga.

Volja fece un piccolo passo in avanti e afferrò uno stipite per sporgersi sopra il cunicolo. Il cemento grezzo delle pareti si stratificava in livelli di spessore diseguale; strisciate nere, forse grasso bruciato, macchiavano il budello squadrato; dall'alto pendevano tre corde di lunghezza diversa, sfilacciate ad arte. La cabina era stata mandata giù e fermata a qualche piano inferiore, molto in basso. Il bagliore delle ossa però gli sfuggiva e Maisondieu sorrideva a fior di labbra, deciso a mantenere il segreto.

Le sfumature del mistero, questo era l'obiettivo dell'architetto, e la torre poteva dirsi una perfetta mise-en-scène del suo progetto.

Gli ultimi tre piani della torre est non apparivano devastati, come le esplosioni avrebbero fatto pensare, bensì consumati a poco a poco dallo scorrere del tempo. Maisondieu aveva trasformato l'albergo vecchio stile in qualcosa di ancora più antico.

Via la corrente elettrica, via le colonnine multifunzionali dalle camere, via l'aria plastificata da luogo mai vissuto. I corridoi erano ricoperti di carta da parati sbiadita dal Sole, le passatoie di prezioso velluto si sbriciolavano sotto i loro piedi; cendrier di ottone brunito agli angoli, colmi di cilindretti bruciacchiati; nappe corrose e tendaggi crollati; le porte delle stanze erano scomparse, e pure il mobilio, letti, poltrone, lampade, svanito, saccheggiato da precedenti, ipotetici visitatori.

L'apertura ottenuta con l'esplosione aveva l'aspetto di uno squarcio naturale, levigato dal vento e dalla pioggia; la luce del Sole vi entrava di sbieco, formando un intreccio di luci e ombre che accrescevano l'indecifrabile aria di mistero. Si respirava un'atmosfera da “qualcuno ha vissuto qui prima di me” che rendeva il posto affascinante e malinconico.

Volja si aggirava per le stanze vuote e sporche facendosi riempire dalla nostalgia. L'odore emesso da Queen Theo accresceva la sensazione di opulenta ricchezza perduta. Donne bellissime avevano attraversato quel luogo, facendo frusciare lo strascico di taffetà, avvolte da una bolla di profumo costoso.

“Bellissimo” borbottava tra sé Volja, “bellissimo.”

Lelìt gli stava accanto e osservava tutto con la serietà che lui ben conosceva. Si sfiorarono involontariamente, le loro dita si strinsero, come se vivessero di vita propria, come se tutti quegli anni di separazione fossero stati pochi minuti trascorsi in stanze diverse, ma a tiro di voce l'uno dall'altra.

Si guardarono, mossi da un'unico filo, lo stesso filo che li condusse via dal gruppo, diversi piani sotto. Lelit aprì a caso la porta di una stanza, uguale a tante altre, e si rovesciarono sul letto a tessere un nuovo tessuto insieme.


“… Maisondieu è arrivato qualche mese dopo Queen Theo e così siamo diventati cinque, il numero creativo per eccellenza.”

Volja se ne stava sulla schiena, un braccio dietro la testa, a guardare con le palpebre socchiuse i fregi dorati del soffitto. Provava a trattenere i lampi colorati che avevano accompagnato il culmine del piacere. In quel momento il suo essere, per una frazione di secondo, era diventato impalpabile, aereo, colmo di luce. Poi era ricaduto sul materasso, aveva ripreso consistenza, ma l'espansione permaneva.

“L'albergo è la vostra opera collettiva?” domandò Lelit, girandosi su un fianco. Il lenzuolo le copriva il corpo fino all'ombelico, i seni diseguali  scendevano in una curva quasi verticale per poi risollevarsi nelle due punte scure e tese dei capezzoli.

“Ah, no, l'albergo l'abbiamo trovato così come lo vedi. Ci abbiamo provato, all'inizio, a creare qualcosa tutti insieme, ma eravamo troppo concentrati su noi stessi.”

“Poteva venire fuori qualcosa di interessante. Un architetto, una profumiera, un artista degli innesti, una scrittrice e uno sviluppatore di interfacce...”

“Andiamo a mangiare.”


I compagni li avevano aspettati, mangiucchiando amouse-bouche. Maisondieu sedeva a capotavola e indossava una giacca di velluto dalle spalline di plexiglass rosso che gli squadravano la figura, rendendolo simile a quei busti marmorei di generali e comandanti dell'antichità. Si pavoneggiava muovendo nell'aria le mani ingioiellate e ogni gesto produceva un tintinnio, una flebile percussione, uno sfregamento metallico, una sonata per bracciali e anelli.

“Regalo dei nostri ospiti” disse, rivolto a Volja, indicando il proprio abbigliamento. L'eccentricità gli dava un piacere speciale.

“Sei il principe degli architetti” commentò Volja, prendendo posto. Sollevò un bicchiere pieno di vino e propose un brindisi all'ingegno.

Mangiarono scambiandosi pareri sulle rovine appena realizzate, paragonandole ad altre forme di arte plastica.

“Anche io potrei essere una rovina architettonica” disse Orìga, mettendo in mostra le braccia nude da cui sporgevano file di orecchie umane. Delicate orecchie di neonato formavano una triplice ghirlanda intorno a un polso; pelose orecchie di gatto, con la cartilagine frastagliata, spuntavano dai gomiti; orecchie grandi, dalle anse lisce, si ergevano lungo il dorso degli avambracci, e i padiglioni bianchi, i meati rosei, ricordavano certe varietà di conchiglie di mare.

“Certo!” replicò l'architetto. “E la gente farà la fila per visitarti, entrando nel buco del tuo culo.”

“Troverei più interessante qualcuno di questi canali uditivi ...” disse Lelit, e mosse un indice fingendo di infilarlo in uno dei tanti orecchi dell'altro.

“Orìga, la tua architettura è troppo individuale” obiettò Roxane.

“Che vuol dire? Anche Maisondieu costruisce secondo la sua individualità, e tu scrivi in base alla tua.”

Queen Theo buttò giù un sorso da una delle ampolline che portava al collo, le sue guance diventarono rosa e dai suoi pori si diffuse un odore dolce, fiorito e animalesco.

“Oh, Theo, è tremendo!” disse Maisondieu.

“Zoccoli di cavalli calpestano un tappeto di merda e gelsomini” disse Roxane in tono sognante.

“Lo sporco! Le tue rovine mi piacciono perché sono sporche!”

Volja si sentì eccitato da quell'illuminazione.

Senza terminare il pasto, si alzarono tutti insieme e tornarono nella torre est per una seconda visita. La stanza in cui entrarono era piastrellata di marmo rosa, velato di calcinacci e di sabbia grossolana, disposta come se l'avesse portata dal vento.

“Oh! Il rumore dei vostri passi sul pavimento ...” disse Orìga.

“Scricchiolio” articolò Roxane. “Scricchiolio. Scric scric.”

Le sue labbra si gonfiavano a ogni scric e brillavano di rosa shocking, nella penombra velata dalla tenda a brandelli. Volja non ricordava la presenza della tenda, quando avevano visitato le stanze prima del pranzo, ma in quel momento l'odore di mirra e benzoino emesso da Queen Theo gli confondeva i pensieri.

Maisondieu aveva abbassato la sedia e la faceva ondeggiare in modo che le suole delle scarpe sfregassero sui granellini del pavimento e il suono si mescolava alla voce di Roxane che pronunciava effimero, capovolto, prospettico, e baciava i polsi di Lelit. Volja strappò la camicia di Orìga sulla schiena e carezzò la doppia fila di minuscole orecchie gommose che correvano parallele alla spina dorsale. I padiglioni auricolari fremevano in cerca dei suoni. Lelit infilò un dito mignolo nella cavità oscura di un orecchio a forma di calla che fioriva da una spalla di Orìga, e soffiò nelle orecchie vicine.

Il suono del fiato di Lelit si fuse con le parole di Roxane, con il crepitio ritmico di Maisondieu, il profumo caldo di Theo e la scabrosità morbida di Orìga e Volja percepì l'orgasmo che montava lento afferrandogli i fianchi, come un rettile preistorico che risaliva faticosamente i pioli delle ere per manifestarsi nel futuro, carico di energia primordiale.


“Sei tu. Sei la nostra interfaccia” disse Volja.

“Devo ritenerlo un complimento?”

Lelit addentò una focaccia, il sugo sfuggì di lato e le schizzò di rosso la giacca candida. Si era tolta l'abbigliamento da viaggio e aveva frugato negli armadi delle camere 810 e 811, prendendo quello che le piaceva.

“La comunione erotica tra di noi era fiacca. Poi arrivi tu … e paf! Siamo un corpo solo.”

Divorata la focaccia, Lelit si impadronì del vassoio colmo di tartine salate e se ne ficcò due in bocca.

“Come ai vecchi tempi, eh?” ammiccò Volja, sollevando un vol-au-vent ripieno di crema d'acciughe e facendolo scomparire in un boccone. “Ti ricordi che voglia di roba salata ci veniva, dopo?”

“Ancora non ho capito bene perché te ne sei andato” disse lei.

“Per vivere.”

Lelit abbassò le ciglia e si versò un bicchiere di vino. Un grido lontano le fece rialzare lo sguardo. Volja balzò in piedi.

“Roxane. La torre est.”

Si mossero entrambi verso gli ascensori della terrazza mentre un secondo urlo squarciava l'aria. Stavolta Roxane diceva qualcosa, Volja distinse la parola aiuto e pigiò con più forza sul pulsante della chiamata.

Nella stanza in cui erano stati tutti insieme, solo un'ora prima, trovarono Roxane e Orìga chini sul pavimento. Queen Theo, appiattita contro una parete, emetteva il fetore acido della paura.

La sedia ad aria di Maisondieu giaceva rovesciata su un fianco e lui, steso sulle piastrelle polverose, apriva e chiudeva la bocca come un pesce fuor d'acqua.

“No, no, resisti” diceva Roxane, senza fare alcunché per aiutarlo a respirare.

Volja scostò i compagni in modo brusco, strappò i bottoni per spalancare la giacca di velluto dell'architetto e si ingarbugliò le dita sui lacci della camicia di seta. Il volto di Maisondieu diventò cianotico, gli occhi strabuzzati si tingevano di sangue per i capillari rotti.

Lelit aprì le tende stracciate e spalancò le imposte. Un rettangolo di Sole inquadrò Maisondieu a terra, l'aria tiepida dell'esterno diluì l'odore acre della paura ma sembrò accrescere la sua sofferenza; si contorse, come se la purezza dell'aria l'avesse frustato, mentre dalla gola gli usciva un rantolo asmatico.

“Un'allergia! disse Lelit.

Si precipitò verso la cassetta di pronto soccorso, appesa a una parete della stanza, la spalancò e rimase senza fiato. Era vuota. L'unico oggetto nuovo e pulito presente in quell'ambiente, e del tutto inutile.

Volja, che l'aveva seguita, emise un grido roco e uscì dalla camera. Lo sentirono muoversi nelle altre stanze, alla ricerca di un'altra cassetta e rimasero in piedi, impotenti, davanti a Maisondieu.

Volja ritornò, senza farmaci ma ancora pieno di speranza; fece qualche passo verso il corpo steso immobile tra i calcinacci.

“È morto” disse Orìga.

“No” rispose Volja.

Roxane si allontanò, coprendosi gli occhi. Anche Orìga strisciò indietro.

“Non è morto!” ripeté Volja, furioso. Afferrò Maisondieu per i lembi della giacca e lo scosse. “Avanti, pallone gonfiato! Siamo tutti qui ad ammirare le tue rovine! Vieni a godere della nostra meraviglia!”

Un fantoccio imbottito di paglia avrebbe fatto maggiore resistenza. Volja si alzò in piedi carico di rabbia.

“Abbiamo mangiato tutti lo stesso cibo” disse. “Nessuno di noi sta male!”

“Forse era nel vino...” accennò Roxane, che beveva solo acqua.

“Anche io ho bevuto vino!” strepitò Volja.

Lelit, che si era chinata per esaminare il cadavere, notò che la pelle di Maisondieu, intorno al collo e sul petto, si era scurita. Afferrò ai polsi le mani di Volja e gliele mostrò: i polpastrelli erano bluastri, macchiati da una sostanza colorante.

“Il veleno era negli abiti.”


Si era raspato le dita fino a scorticare la pelle e ora i polpastrelli bruciavano, come la rabbia che ancora gli ardeva nel petto. Lelìt l'aveva obbligato a deglutire una pillola, “antidoto a largo spettro” gli aveva detto.

“Qui gli spettri ci ammazzano” era stato il commento di Volja.

“Spiegami cosa sta succedendo.”

Tirò su le gambe e si rannicchiò sul divano della stanza di Volja.

“Quando sono arrivato all'albergo c'erano tre persone: Roxane, Orìga e Hana. Hana era la più giovane, avrà avuto… difficile darle un'età, era bassa di statura, esile… dieci anni? dodici anni? Ho capito poi, dai discorsi di Roxane, che Hana si trovava già qui quando è arrivata.”

“E dov'è adesso?”

Volja chiuse gli occhi. Rivedeva la scena con una precisione di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Il piccolo corpo steso sul fondo della piscina vuota, l'aureola di sangue intorno alla testa.

“È morta.”

Lelìt gli si accostò.

“Nell'albergo c'è una piscina vecchio modello, a risparmio d'acqua. Ti tuffi nel vuoto, i sensori ti captano ed emettono dei getti d'aria che ti permettono di galleggiare, come se fossi dentro l'acqua. Hana ci nuotava tutte le mattine prima di colazione.”

“Un guasto ai sensori è sempre possibile.”

“Orìga riteneva che fosse stato un incidente mentre Roxane … oh, lei crede che ci siano i Malfattori. Ha messo su una religione tutta sua. Roxane pensa che dentro l'albergo agiscano due distinti gruppi di persone, o di entità: i Benefattori e i Malfattori. I premi, il cibo, le lenzuola di lino, gli indumenti confortevoli, forse perfino l'aria e il Sole, sono opera dei Benefattori.”

“I Malfattori, invece, vogliono distruggere, disfare, condurvi alla disperazione” concluse Lelìt.

“Io ho un'altra ipotesi. Benefattori e Malfattori sono le stesse persone. Ci osservano, ci spiano, si divertono a vedere le nostre reazioni ogni volta che introducono una variazione nello schema quotidiano.”

“Roxane è una scrittrice” replicò Lelit. “Riesce a raccontare i fatti più assurdi, le situazioni più inverosimili in modo da farli sembrare coerenti e sensati.”

“I morti, però, sono reali” aggiunse Volja.

Lelìt gli strinse un braccio con affetto e lui, sensibile ai piccoli gesti, lasciò andare la rabbia per far scorrere le lacrime.


Le scale dell'hotel gli davano sempre i brividi.

Anonime, tortuose, illuminate da piccole lampade a muro dalla luce verde, erano l'unico luogo polveroso dell'edificio. Quando le usava, Volja si aspettava di essere aggredito a ogni svolta di rampa, ma non succedeva mai. I Benefattori non erano così prevedibili.

“C'è qualcosa che devi vedere” aveva detto a Lelit e ora entrambi scendevano quei gradini inquietanti.

In un pianerottolo un oggetto sul pavimento attirò la sua attenzione. Volja si chinò e lo raccolse: una corta bacchetta di plais, un'estremità liscia e una intagliata e traforata.

“Che cos'è?” domandò Lelìt.

“Non lo so.”

Intascò l'oggetto e riprese a scendere le scale. Faceva quel percorso almeno una volta alla settimana e non aveva mai trovato nulla.

Una doppia porta basculante immetteva nel sottopiano. L'aria tiepida, umida, rappresentò un bel cambiamento rispetto a quella sterilizzata dei piani superiori. Al centro di un vasto ambiente si trovavano due piscine rettangolari. Una di media grandezza, vuota, e una molto più grande, piena d'acqua. Cento metri di lunghezza, dieci di profondità nella zona più fonda, dotata di due trampolini, varie scalette, bocchette di purificazione a ossigeno e radiazione similsolare dal soffitto. Sembrava di stare all'aperto in una bella giornata di cielo terso.

“Qui abbiamo trovato Hana” disse Volja, indicandole la piscina vuota. Prese per mano Lelìt e le fece fare un giro largo per accostarsi al bordo della seconda vasca. Le loro ombre si proiettarono sull'acqua e due forme arancioni si materializzarono sotto la supeficie. Prese una manciata di cibo a scaglie da un secchio e lo gettò alle carpe, che lo fecero sparire con avidità.

Le enormi code facevano guizzare i corpi sinuosi in una danza perenne, uno accanto all'altro, tutti insieme e poi da soli e poi a due a due; rosso, bianco, arancio e nero balenavano nell'oscurità liquida e tornavano a inabissarsi. L'acqua, smossa di continuo, colpiva i bordi della vasca e faceva vibrare una serie di lamine ricoperte di gelatina, incollate lungo tutto il perimetro, immerse solo in parte.

Una matassa di fili sottilissimi, trasparenti, collegava fra loro le lamine e si congiungeva, dal lato corto della vasca, a un cilindro di vetro pieno di materia vischiosa, nel quale si infilavano diversi cavi elettrici che scendevano dal soffitto.

Lelìt aveva seguito tutto il percorso con lo sguardo e fissava i cavi.

“Ci sei riuscito.”

Volja incrociò le braccia e gonfiò il petto.

“Quando sono arrivato l'albergo era spento, morto. Roxane e Orìga avevano alcune torce a batteria e si lavavano con acqua fredda. Anche questa piscina era ad aria; l'abbiamo modificata noi quattro. Hana si intendeva di idraulica. Nell'atrio c'era una fontana con pesci, ninfee e giaggioli. Ho solo ampliato l'habitat delle carpe, adesso lavorano per noi.”

“Essere fuori dalla Multiversità l'ingegno” disse Lelìt.

Volja si infilò le mani in tasca, strinse la bacchetta che aveva raccolto sulle scale e comprese qual era la sua funzione.


I sotterranei dell'albergo non terminavano con le piscine.

In un angolo della grande sala, vicino agli appendiabiti, si trovava una botola. Una scala di metallo conduceva a una foresta incantata. File e file di pilastri, ricoperti di led luminosi, reggevano un cielo di calcestruzzo; frecce stampate sul pavimento di lucido linoleum porpora tracciavano sentieri a senso unico o bidirezionali, e piccoli semafori appesi al soffitto, come stelle comete a tre colori, regolavano il traffico inesistente.

I passi di Volja e Lelìt risuonarono nel garage vuoto.

Di fianco a un pilastro, aerodinamica, scintillante di vernice color argento, era posteggiata un'automobile, un veicolo antiquato a quattro ruote, dotato di targa, portiere laterali, cofano e volante. Nuova come se fosse appena uscita dalla fabbrica.

“È apparsa qualche mese fa” disse Volja. Aprì la portiera e si sedette al volante. Lelìt prese posto nel sedile accanto.

Volja trasse di tasca l'oggetto che aveva trovato sulle scale ed esaminò il cruscotto, alla ricerca del punto di inserimento della chiave. Quei mezzi di trasporto somigliavano alle vetture elettriche, ma non possedevano lo schermo sul quale impostare la rotta, e neppure il pilota automatico.

Provò diverse cavità finché la chiave si adattò a un foro esagonale e subito il cruscotto si accese, alcune spie lampeggiarono, il motore rumoreggiò. Volja posò le mani sul volante e lo strinse, aspettandosi una reazione da parte del veicolo.

“Credo si debbano usare anche i piedi” disse Lelìt.

Volja frugò coi piedi sotto il cruscotto e percepì tre pedali; premendo il primo non accadde nulla, col secondo ancora nulla ma al terzo il suono del motore aumentò di intensità e l'automobile fece un brusco salto in avanti, poi si spense.

Spaventato, Volja aveva sollevato di botto il piede dal pedale.

“Per imparare a guidarla sprecheresti metà del carburante” disse Lelìt.

“Lo so. Dovrei modificarla, fare in modo che possa utilizzare un'energia differente.”

“Rimorchia una vasca con le carpe.”

“Ridi, ridi. Mi sto scervellando giorno e notte per trovare una soluzione. Voglio andare via da qui, prima che tocchi a me.”

“Puoi sempre camminare, nessuno ti trattiene.”

“Dove arriverei a piedi? A est c'è la Multiversità, a nord la città, a sud il deserto. E l'ovest è cattivo per definizione” aggiunse Volja dopo un istante di silenzio.

“Gli altri cosa ne pensano?” domandò Lelìt.

“Non sanno di quest'auto, non sanno neppure che esiste il garage.”

“Tu come l'hai scoperto?”

“Me l'hanno fatto trovare i Benefattori.”

“Ti fidi di loro? Potrebbe essere un nuovo aspetto del gioco, introducono alcune varianti per modificare i singoli comportamenti. Anche i tuoi compagni hanno trovato oggetti o ambienti sconosciuti?”

Solo in quel momento Volja fu toccato dal pensiero di essere soltanto una delle pedine sulla scacchiera. Roxane avrebbe potuto rinvenire dei messaggi nelle sue stanze, come era capitato a lui. Orìga ugualmente. E  Queen Theo stava sempre zitta. Aveva paura di tradirsi?

“Sei sempre tu” disse Lelìt, scuotendo la testa. “Credi di essere il perno del mondo.”


“Andarcene dall'albergo?” Orìga ergeva la testa, indignato. “L'idea più stupida che io e le mie orecchie abbiamo mai ascoltato."

“Siamo in prigione, teste di cazzo! Lo volete capire? Siamo cinque carcerati convinti di essere liberi. Quanti di noi dovranno crepare, prima che muoviamo il culo?”

“Credo di aver individuato uno schema, nell'azione dei Malfattori” rispose Roxane, pacata. “In passato, dopo aver costruito un ponte si faceva un sacrificio, perché l'essere umano aveva unito ciò che era stato creato diviso. I Malfattori hanno paura dei cambiamenti, della modificazione del reale, perciò ci puniscono ogni volta che noi creiamo una nuova realtà.”

L'acustica perfetta della sala congressi amplificava la sua voce facendola rimbalzare sulle poltroncine vuote.

“Se questa ipotesi è corretta, al posto tuo mi preoccuperei” disse Volja. “Significa che il tuo romanzo non crea una nuova realtà.”

Roxane rimase impassibile.

“Non rispondi? Puoi dirmi che il postmoderno se ne infischia della realtà. E anche del fatto che due di noi sono chiusi nella ghiacciaia dell'albergo.”

“Sei sconvolto” intervenne Orìga. “Come tutti noi. Abbiamo bisogno di un po' di tempo per riprenderci.”

Volja chiuse gli occhi, rassegnato. Ci furono alcuni secondi di silenzio, poi Roxane si alzò in piedi.

“Siamo ancora in cinque” proclamò.

“Che cosa ti fa credere che Lelìt voglia restare?”

Entrambi si volsero alla diretta interessata.

“Ah, no, lasciatemi fuori dai vostri problemi” Lelit sollevò entrambe le mani proclamando la sua estraneità.

Volja si alzò in piedi.

“Me la fai pagare perché sono andato via.”

“Non sei il centro della mia vita.”

Volja fronteggiò Roxane con aria bellicosa e poi fissò ognuno dei presenti. Capì in fretta che nessuno l'avrebbe sostenuto.

“Ci rivediamo al prossimo morto.”

Risalì i gradini e abbandonò la sala conferenze.


Dopo essersi sfogato pestando il sacco della sala ginnica, Volja decise di cercare informazioni sul motore a scoppio.

Infilato nel monticello di carne sotto il pollice sinistro aveva ancora il chip di connessione alla rete. L'aveva reso silente molto tempo prima, soffocandolo con qualche goccia di olio vegetale. Lo ripulì per bene e attese che si risvegliasse.

Il bordo dentellato riemerse dalla pelle e Volja lo fece scorrere per accedere al comando vocale.

“Informazioni sui motori del Ventesimo secolo” pronunciò, e subito il chip proiettò contro una parete la schermata di notizie, immagini e disegni.

Ben presto si rese conto che la varietà e diversità dei motori di quel periodo l'avrebbe costretto ad analizzare quello che si trovava nell'automobile del sotterraneo.

Ogni mattina faceva colazione al bar del sesto piano e poi si inabissava nelle profondità del garage. Nel portabagagli dell'automobile aveva trovato un set di chiavi e cacciaviti, con cui smontava e rimontava alcune parti del motore.

“Come procede?”

Volja si sollevò di scatto e sbatté la testa contro il cofano aperto. Lelit gli era arrivata alle spalle, più silenziosa di un gatto.

“Il funzionamento è di una banalità sconcertante” rispose lui, massaggiandosi il cocuzzolo della testa.

“Userai il gel semiorganico che hai preparato per la piscina?”

“Come fai a sapere che è … oh, adesso capisco. Hai uno spettrografo nel microchip. Altro che noia e ribellione. Sei qui per lavoro. Stai cercando un'energia alteralter.”

Lelit non rispose. Indossava un caftano ricamato a motivi vegetali, tralci e volute fiorite che assecondavano le sue forme. Un fiore in mezzo ai fiori. Volja pensò con tristezza che l'unica persona in grado di condividere i suoi pensieri fosse lì per rubarglieli.

“Secondo me la prima cosa da fare è separare il sistema elettrico da quello a combustibile liquido” disse Lelit.

Volja riportò lo sguardo sul motore.

“Ci servono due sistemi indipendenti” aggiunse lei. “Se uno fa le bizze, si può usare l'altro.”

“Ho sempre avuto fiducia nell'indipendenza” commentò lui.

In pochi giorni i pilastri del garage fiorirono di schemi, disegni e formule chimiche scarabocchiate sull'intonaco. Volja e Lelit trascorrevano gran parte della giornata intorno al motore. A volte mangiavano seduti su una coperta sottratta ai fastosi letti dei piani superiori, a volte preferivano i morbidi sedili posteriori dell'automobile.

“Perché l'avranno chiamata auto-mobile?” si chiedeva Lelit. “Non si muove da sé ma ha bisogno di un pilota. Le nostre vetture elettriche sono realmente autonome.”

“Gli Antichi erano presuntuosi” rispose Volja masticando il panino. “E noi siamo obbligati a percorrere le strade elettrificate, perciò anche la nostra autonomia va a farsi fottere.”

Con le portiere chiuse e il cofano sollevato a occludere il parabrezza anteriore, l'interno del veicolo si trasformava in un piccolo scrigno e il sedile posteriore diventava un'alcova. Sembrava normale sussurrare e ascoltare i respiri l'uno dell'altra sotto il tettuccio rigido della presuntuosa auto-mobile.

Per caso avevano trovato una funzione, sul cruscotto, che consentiva di ascoltare musica e le note di una vecchia canzone li avvolgeva sinuosa.

“Mentre venivo qui sono stata sorpresa dalla pioggia. Ho aperto la tenda sul bordo della strada e mi ci sono rifugiata dentro. Il suono delle gocce sul tessuto mi ha fatto sentire libera.”

“Ho avuto la stessa sensazione l'ultima volta che sono sceso per le scale dell'istituto di Energetica. Me ne stavo andando per sempre. Sorridevo dalla contentezza. Tutti quelli che mi incrociavano di sicuro pensavano: guarda un po' questo cretino, di cosa si sarà fatto? Mostrare la schiena al lavoro, quella è stata vera liberazione!”

“Non ti sei mai pentito?”

“No.”

Lui la guardò di sottecchi e aggiunse:

“Però sono contento che tu sia qui, adesso.”

“Anche se ti ruberò l'interfaccia?”

Lui scosse la testa. Bisogna vedere se ci riuscirai, pensava, masticando il panino. Il gusto salato della crema di alghe gli riempiva la testa di vecchie immagini, altrettanto salate e luminose.

“Ti ricordi di quando siamo andati al mare?” le chiese, sfregando i piedi sul tappetino, morbido e pungente. Si erano entrambi tolti le scarpe prima di salire.

Lelit assentì a bocca piena.

“Uno spasso! Avevi paura di mettere i piedi nella sabbia.”

“Non l'avevo mai vista prima. Sembrava mi volesse inghiottire. Una materia infida.”

Gli altoparlanti diffondevano un'altra canzone, più lenta della precedente. Una canzone che parlava di corse spensierate e di vita leggera.

“Il paradiso” sospirò Lelit.

“Forse” ammise lui con riluttanza. “Ci sono molti tipi di felicità. Io sono felice quando sono libero di stare per conto mio, magari seduto per tutto il giorno a meditare, senza dover rendere conto a nessuno del mio tempo, senza giustificarmi o sentirmi colpevole.”

“Io quando riesco a fare quello che so fare: smontare quel motore e usare i suoi pezzi per costruirne un altro.”

Rimasero in silenzio per alcuni secondi. Lei si succhiava la salsa dalle dita.

“Ti illudi di esserne uscito, Volja, ma non si può uscire dal sistema vita. Finché siamo vivi abbiamo bisogno di energia.”

Volja le porse un secondo panino avvolto in un tovagliolo.

“Un altro po' di energia?”

Lelit gli scostò la mano, si allungò e lo baciò sulla bocca. Volja si abbandonò sul sedile, lasciò cadere il panino e le cinse la schiena con le braccia. Gli sembrò che la musica crescesse di intensità rombando nelle orecchie e l'odore di mare riempisse l'abitacolo. Salirono insieme in cima alla vetta e quando fu il momento di scivolare giù si aggrappò alle spalle di lei. Un filo di luce gialla, danzante, intermittente, si arrotolò intorno ai loro corpi e le gambe vibrarono, le articolazioni si polverizzarono, l'equilibrio della vetta mutò nella serpentina di due sciatori su un unico paio di sci.

“L'hai vista anche tu?” sussurrò Lelit. La bocca dietro il collo di lui, il respiro ancora affannato.

“Sì, l'ho vista.”

La luce gialla, sottile e potente, non gli capitava spesso; nella maggior parte dei casi i fuochi d'artificio dietro le palpebre erano rossi, blu e violetti.

“E se usassimo l'orgasmo?”

Volja impiegò alcuni secondi a decifrare le sue parole ma sapeva che Lelit aveva trovato la soluzione.


Il problema si spostava dal protocollo di comunicazione tra i due sistemi, per il quale si poteva usare il gel a otoliti che trasformava il movimento delle carpe in corrente elettrica, alla cattura e allo stivaggio dell'energia emessa dall'orgasmo.

“Come ci sei arrivata?” le chiese Volja, immergendosi nell'acqua calda miscelata con l'aria.

Avevano lasciato il garage, un poco barcollanti, e avevano raggiunto la suite Magnolia all'ottavo piano: un appartamento dalle tinte color crema che possedeva una vasca con l'idromassaggio.

“Grazie al tuo accostamento fra strada elettrificata e fottere.”

“Dobbiamo solo capire come prelevare l'energia.”

“Tuffiamo un secchio nei pozzi” sorrise Lelit.

“Quali pozzi?”

“I chakra. Secondo la tradizione, il primo e il secondo sono carichi di forza sessuale, ma il giallo corrisponde al terzo chakra, che si trova alla base del diaframma ed è collegato alla digestione, al calore, al fuoco.”

“Potremmo coinvolgere anche gli altri” disse Volja.

“Gli altri chakra?”

“Parlo di Orìga, Roxane e Queen Theo.”

“Se è necessario” rispose Lelit, e si immerse fino a coprire la bocca.


C'è un momento, nella vita di ogni essere umano, in cui gioia e dolore si affrancano dagli accadimenti esterni e si manifestano per quello che sono, stratificazioni muscolari di emozioni precedenti. Il passato risorge dai contenitori cellulari e balza su di noi come un predone di strada, facendoci piangere o ridere senza alcuna causa contingente.

Lelit si trovava precisamente in questo momento.

Si era scelta una suite nella torre ovest perché aveva una piccola dispensa, dalla quale poteva prendere crackers, arachidi e mandorle salate da sgranocchiare.

Amava trascorrere il suo tempo senza musica in sottofondo, in modo da poter contemplare la lavagna bianca del silenzio; da principio lo spazio si riempiva di scarabocchi inutili, fiorellini, losanghe ripetute, ma se la guardava abbastanza a lungo cominciavano a emergere idee e frammenti.

Frammenti, soprattutto.

Lelit aveva sempre avuto difficoltà a pensarsi come un intero, perché era nata senza la parte inferiore del corpo. Dalla vita in su il torace, le braccia, il cuore, erano ben sviluppati; dalla vita in giù il bacino si restringeva come un imbuto, le gambe si assottigliavano in due cordicelle smorte, i piedi due virgole dalle ossa cartilaginee, troppo molli per sostenere una postura eretta.

I suoi cinque genitori avevano litigato: tre volevano farle innestare un impianto cellulare che facesse crescere ventre e gambe prima dei sei mesi di vita, uno riteneva che fosse meglio attendere e un'altra che bisognasse aspettare finché la bambina fosse in grado di decidere da sé.

Alla fine quest'ultima idea aveva prevalso e Lelit arrivò alla pubertà dentro un comodo girello a batteria. Poi andò a uno spettacolo di danza e desiderò avere le gambe. Le cellule staminali impiegarono anni a costruirle un nuovo corpo. Gli anni più dolorosi della sua vita. Si svegliava di notte, preda dell'angoscia, perché sentiva crescere le ossa, i tendini, i muscoli, il tessuto connettivo.

Dopo, nulla era più stato come prima. Posare i piedi sul terreno e muoverli disegnando un arco dal tallone all'alluce l'aveva cambiata. Da principio confusa, aveva imparato a concentrarsi su quel gesto, così danzante e così prepotente. Ogni passo significava: sono qui, ci sono, lascio il segno.

Il terzo chakra era il punto di raccordo tra la se stessa originaria e la se stessa ricostruita.

Dopo aver rovistato negli armadi delle stanze del quinto piano, provandosi abiti con lo strascico e cappelli di paglia, le sue narici captarono un forte odore di caramello, che degenerò nell'acre dello zucchero bruciato.

Seguì la traccia e trovò Queen Theo, seduta tra le scope e i secchi di un piccolo bagno di servizio, che vomitava nel water. Era il suo vomito a produrre quell'odore. La ragazza sollevò la testa e le fece un cenno di saluto, ma un nuovo conato la costrinse a chinarsi di nuovo sulla tazza.

L'interfaccia col senso del gusto è il sesso orale, pensò Lelit. E l'odore forma gran parte del sapore di quello che mettiamo in bocca.

Queen Theo si pulì il mento con una balza dell'abito.

“Faresti un profumo per me?” le chiese Lelit.


Accanto alla sala Ambra si trovavano le cucine. I macchinari più grandi erano i sintetizzatori di materia, che assemblavano frutta, verdura, carne e pesce, facendo crescere le scorte di cellule vegetali e animali conservate nei frigoriferi. All'interno di una dispensa Lelit aveva scoperto un laboratorio chimico attrezzato anche per lavori di microbiologia.

Si era chiesta se fosse stato preparato per lei dai Benefattori o dai Malfattori, ma non gliene importava nulla. Era ciò che le serviva in quel momento.

Clonando alcune sue cellule epiteliali aveva fatto crescere una pellicola tubolare. Mentre la sintetizzava gli occhi le si riempirono di lacrime. Aveva dimenticato quanto fosse doloroso stare accanto a una persona che ti piace ma non ti vuole. E Volja, nonostante la loro perfetta intesa, era rimasto lo stesso: un cuore sottovetro. Potevi vederlo ma non toccarlo.

La rete per acchiappare l'energia era pronta. La riempì con il gel semiorganico inventato da Volja e le lacrime si mescolarono al composto, facendogli assumere una colorazione candida; assorbiva e rifletteva tutte le sfumature dello spettro energetico.


Tic tic tic.

Un breve intervallo di silenzio e poi ancora

tictictictictictic

a cascata, tutti di seguito ma ben distinti, come un pianista che fa una scala separando le note con decisione.

La scala c'era, marmo color crema dai gradini rotondeggianti; collegava il bar del primo piano con i salotti del piano terra. Il pianista era Origa. Aveva messo a punto un sistema di scatole forate, collegate tra loro da canalette di plastica; lui decideva il tempo, gettando le perle di onice lungo i piani inclinati, ottenendo i vari ritmi, più intensi, più blandi. Alcune sue orecchie gradivano la velocità, altre amavano le cadenze regolari; le file di minuscole orecchie dei polsi si eccitavano con gli intervalli lunghi e irregolari.

L'ultima perla ricadde e non emise suono. Origa sollevò lo sguardo e scoprì che Lelit l'aveva presa in mano.


La tua catastrofe non è la mia catastrofe.

Roxane contemplò la frase, scritta a grandi caratteri, nel muro davanti a lei. La sua grafia riusciva a formare svolazzi anche quando usava il maiuscolo. Era solita aprire una bottiglia di champagne, annerire il turacciolo con un accendino, e usarlo per scrivere. Le piaceva la materialità del gesto, la possibilità di sfumare le lettere con i polpastrelli, l'odore di bruciato. Anche la bevuta aveva il suo ruolo. Si versò un altro bicchiere e riempì quello di Lelit.

“Tu non sei come noi. Sei cresciuta su una terrazza e guardi tutti dall'alto. Vuoi comandare, vuoi dirigere le cose.”

“Ho imparato a comandare le mie gambe e mi piace spostarmi.”

“Quindi te ne andrai con Volja, alla fine.”

“La mia catastrofe non è la tua catastrofe.”

Roxane tirò su col naso e un singulto alcolico le uscì dal naso.

“Sono venuta a cercarlo perché eravamo felici insieme.”

“E io dovrei crederti?” obiettò la scrittrice.

Gli occhi iniettati di sangue di Roxane la fissarono tra i ciuffi arruffati che le spiovevano sul naso. Raccolse il tappo di sughero, ne bruciò ancora l'estremità affumicata e disegnò alcune righe parallele sulle guance di Lelit, concludendo con una linea sottile dal centro del labbro inferiore fin sotto il mento.

“L'immaginazione è la chiave di tutto” disse.


Per molto tempo ho creduto di odiarti.

Non era un mio sentimento, mi era stato lasciato in eredità da chi ti aveva conosciuto. Sei sempre stata una creatura ombrosa, delicata, ricolma di fantasie, difficile da capire. Tu sei il diapason che vibra su note stridenti...

Lelit galleggiava distesa nell'acqua della piscina e la voce ipnotica di Roxane andava e veniva secondo le ondate, ora le tappavano le orecchie, ora scorrevano dalla testa ai piedi. Ma se si aggrappava a Origa, tenendosi ai due grandi padiglioni piatti che sorgevano dalle scapole, i suoni le entravano nelle dita delle mani e vibravano lungo la pelle, limpidi come se Roxane fosse vicina.

“… ci siamo scaldati allo stesso fuoco, abbiamo bruciato le stesse fantasie...”

Origa si teneva a cavalcioni della carpa più grande, un mostro lungo due metri, e la controllava stringendo le ginocchia sulle branchie, se quella accennava a ribellarsi. Le strisce di pelle clonata, piene di gel semiorganico, gli circondavano i chakra come tanti anelli trasparenti intorno al pianeta corpo.

Il calore corporeo fondeva l'involucro, lo faceva aderire alla pelle e il gel si gonfiava, si caricava di energia. Volja toccò la schiena di Lelit e le massaggiò le due strisce parallele che aderivano alla colonna vertebrale, intersecando i cerchi all'altezza delle reni, delle scapole, del rachide e della parte posteriore del cranio.

“… quando ho visto te, ho visto me. Quando ho conosciuto te, ho conosciuto me. Abbiamo parlato, ascoltandoci l'un l'altra. Abbiamo  parlato la stessa lingua...

Roxane nuotava intorno a loro, stringendoli in un cerchio di ondate e parole. Leggeva le frasi proiettate dalla colonnina multimediale, che avevano spostato dalla sala conferenze alla piscina.

Dall'acqua tiepida della vasca salivano i vapori profumati che Queen Theo emetteva sputando e pisciando. Si teneva ritta al centro, muovendo mani e piedi per stare a galla, e girava su se stessa per diffondere l'odore del muschio e dell'ambra grigia e il ricordo di un cuore oceanico grande come una stanza.

Le mani di Volja si chiusero sui seni di Lelit e lei socchiuse gli occhi. L'aria diventò torbida come l'acqua. La bocca di Roxane recitava ora contro la sua bocca e a volte diventava le labbra vischiose e fredde di una carpa, a volte la cartilagine elastica delle orecchie addominali di Orìga.

Queen Theo si distese supina a pelo d'acqua, spalancò le gambe e con le mani si allontanò le grandi labbra, dischiuse le tre vagine e rilasciò un odore azzurro che si allargò in una nuvola densa. Le carpe si scuotevano, facevano giravolte sotto di lei pazze di desiderio, le squame sfregavano sulla sua pelle, sulla loro pelle, scorrendo in senso contrario, dalla testa alla coda del pesce, e tagliavano, scorticavano. Il sangue si mescolò all'odore azzurro e l'acqua diventò viola ametista.

“Come l'amore” balbettò Lelit.

“Cosa?” ansimò Volja.

“Proprio come l'amore” gridò lei.


Lelit si infilò nella doccia e restò ferma sotto l'acqua tiepida. I rivoli si intrecciavano e si separavano, una moltitudine di lingue frettolose, che volevano arrivare rapidamente alla conclusione del percorso. Lo scarico. Il buco nero dello scarico.

Diversi piani sotto di lei, Volja stava collegando le strisce cariche allo scambiatore, che a sua volta avrebbe trasmesso l'energia al motore elettrico dell'automobile.

Lelit chiuse l'acqua e si asciugò rapidamente. Indossò la tuta con cui era arrivata all'albergo, il grande cappello a otto, i calzari. Riempì lo zaino con tutte le bottiglie d'acqua che trovò nel frigo della stanza; nelle tasche esterne stipò le buste di noccioline e mandorle salate.

Afferrò il bastone da viaggio e aprì la porta della stanza. Prima ancora di fare un passo nel corridoio sentì l'odore ferino. Terra di bosco umida e pelo di animale bagnato. Una massa bruna, in fondo, vicino alla svolta che conduceva all'ascensore, girò la testa ed emise uno sbuffo simile a un breve latrato.

Un orso.

Un orso vivo.

Si guardarono per un attimo, l'orso si drizzò sulle zampe posteriori e spalancò la bocca, una fila di zanne gialle. Un verso cupo gli salì dalla gola.

Lelit richiuse la porta e ci appoggiò contro entrambe le mani. Sentiva la bestia ansimare e sbuffare.

Si guardò intorno. Lo scrittoio sembrava robusto. Stringendo i denti lo spinse contro la porta della camera: forse avrebbe guadagnato un po' di tempo. Digitò il numero della stanza di Volja sulla tastiera del telefono e rimase ad ascoltare gli squilli infiniti. Sperava che fosse risalito in camera a prendere i bagagli. Chiuse e provò i numeri indicati sulla rubrica: concierge, lavanderia, servizio in camera. Nessuna risposta.

Non ricordava in quali stanze alloggiassero gli altri. Richiuse il telefono e rimase in ascolto. Nessun rumore dal corridoio. Forse se l'era immaginato. I Benefattori l'avevano drogata, o potevano essere stati i Malfattori. Le umoristiche divinità che presiedevano alla vita dell'albergo erano in vena di scherzi.

Si arrampicò sullo scrittorio e accostò un orecchio alla porta. Niente. Scese e allontanò di mezzo metro il pesante mobile di legno; abbassò lentamente la maniglia e aprì uno spiraglio. L'odore di escrementi le aggredì le narici. L'orso sfregava il potente deretano sulla tappezzeria dei muri. Accostò la porta con tutta la delicatezza di cui era capace e rifece la barricata.

Sedette sul letto, a gambe incrociate e si rassegnò ad attendere. Prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercarla.

Attese finché le si intorpidirono i muscoli. Attese fino ad avvertire un dolore nel plesso solare. Il diaframma, irrigidito dalla paura, si rifiutava di fare il suo dovere.

Niente pareva cambiato. Il corridoio era silenzioso. Aprì il solito spiraglio, sbirciò e poi spalancò del tutto la porta. Il parquet era immacolato, le pareti del corridoio pulite, nessun odore, nessuna presenza. Si incamminò verso l'ascensore. L'albergo funzionava con la solita efficienza.

La hall era vuota.

Dalla sala Giada giungevano le voci sonore e allegre di Roxane e Orìga. Lelit si accostò alla porta e un forte odore di menta si mescolò alle parole. Volevano provare a trasformare l'intero albergo in un'opera d'arte. Orìga avrebbe creato rumori e suoni particolari per ogni ambiente, Queen Theo si sarebbe occupata dei profumi e Roxane avrebbe scritto una storia che legasse ogni aspetto del luogo a personaggi immaginari.

Lelit si allontanò in punta di piedi. Le porte di cristallo si aprirono per farla uscire. Avanzò fino a un'aiuola e strizzando le palpebre riuscì a scorgere un puntino argentato brillare all'orizzonte, una freccia in allontanamento.

Volja se n'era andato.

E sarebbe arrivato lontano. La carica energetica era forte.

Lelit fece un respiro profondo per scacciare la delusione e sentì che il proprio equatore corporeo si scioglieva. La lastra di cristallo che l'aveva sempre divisa a metà rivelava la sua natura fittizia: era acqua congelata. E reagiva al calore tornando alla forma originaria.

Il sollievo risalì dal petto, diventò un'ondata di fuoco. La fornace interiore faceva piazza pulita di tutti i sentimenti. La nostalgia per Volja, così intensa e dolorosa quando era rimasta sola alla Multiversità, si ammorbidiva; il desiderio di lui si scioglieva, perdeva compattezza, sublimava in un vapore tiepido; la voglia di fuggire cambiava colore, passava dal bianco incandescente a un verde tenue. E tutte, tutte le sue emozioni erano materia grezza, pronta per essere nuovamente lavorata.

Consapevole della sua unicità, si sentì innalzata a un luogo superiore,  prima artefice di un nuovo mondo. Avrebbe forgiato nuovi pistoni, nuove bielle, nuovi incastri e nuovi rapporti di potenza. Lei era il motore!

La realtà si imponeva, fresca e morbida. Carica di energia.

Mai aveva immaginato che sarebbe finita così. Eppure qualcosa si era lasciato presentire, il giorno stesso del suo arrivo all'albergo. Guardando Volja era stata consapevole del passato e del futuro, in un colpo solo.

In fondo, cos'è l'amore? Energia. E il ricordo dell'amore energia immagazzinata. Messa da parte per essere riutilizzata in un altro momento, in un altro posto.



Clelia Farris has won many science fiction awards in Italy. Her collection Creative Surgery came out in English in 2020 from Rosarium Publishing. Also in English are her stories "A Day to Remember" (Samovar), "The Substance of Ideas" (Future Science Fiction Digest), and "Holes" (World Literature Today). All stories were translated by Rachel Cordasco.