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Marco sapeva che sulla torta avrebbero dovuto esserci dieci candeline, ma ne trovò una sola, come ogni anno, e non se ne meravigliò.

Mamma usava sempre la stessa, in quell’occasione. La conficcava al centro della crostata di mele appena sfornata, aspettava che lui esprimesse un desiderio, che la spegnesse con un soffio, quindi la riponeva nella madia, dove l’avrebbe trovata l’anno successivo. E Marco seguì docilmente il copione: ringraziò e sorrise, portò due dita alle tempie e chiuse gli occhi, infine soffiò sulla fiammella, liberando dallo stoppino un filo grigio a naufragare nella mezza luce del pomeriggio.

Il salottino in penombra si riempì per alcuni istanti dell’odore acre del fumo, subito diluito nella fragranza calda della torta e nell’onnipresente sentore muffoso che trasudava dal legno delle pareti.

Marco sollevò lo sguardo su mamma, e nonostante tutto la trovò bella. Era sempre più magra, ogni anno che passava; sempre più spenta, come i suoi occhi, affossati nel pallore di un volto che faticava a cogliere il bagliore di un sorriso e a rifletterlo a sua volta, ma che pure ci provava. Un gesto apprezzabile, avrebbe potuto pensare Marco, se solo avesse conosciuto il significato della parola. Dai, mamma, sorridimi, pensò. La piega tremula assunta dalla bocca della donna fu quanto di meglio riuscì a ottenere in risposta a quella silenziosa esortazione, e se la fece bastare. Come quell’unica candelina azzurra, che gli sembrava sempre uguale mentre perdeva un paio di millimetri ogni volta che gli compariva davanti.

“Vuoi dirmi cos’hai desiderato?” gli domandò mamma. Glielo chiedeva a ogni compleanno, pur sapendo che Marco non gliel’avrebbe detto. Anche quello faceva parte della tradizione. Tanto lo sapeva, cosa desiderava suo figlio. E non era un solo desiderio, ma un groviglio di sogni e di speranze che anno dopo anno si erano annodati, fusi, incastrati dentro la sua piccola testa a comporre un grumo inestricabile. Un grumo da cui emergeva essenzialmente un viso, quello di suo padre - una padre che Marco non aveva mai conosciuto, ma che mille e mille volte si era sforzato di immaginare invecchiando con la fantasia il proprio riflesso allo specchio.

“Tornerà, un giorno, papà?” si era ormai stancato di chiedere a sua madre. La risposta era sempre la stessa. Non lo so, amore. E se nemmeno mamma lo sapeva, allora voleva dire che forse non sarebbe più tornato. Anche se a volte si era ritrovato a sospettare che non se ne fosse mai davvero... Scacciò all’istante quel pensiero molesto, che in fondo era solo poco più di un pizzicore in un angolo del cervello. Un’idiozia.

In ogni caso, c’erano tante cose, nella sua vita, che avrebbe desiderato cambiare. Magari gli sarebbe piaciuto poter uscire, ogni tanto, allontanarsi da lì, o poter invitare amici - gli amici che non aveva - a giocare con lui in quella grande casa sempre troppo scura, lontana dal resto di un mondo sconosciuto, persa in una campagna che Marco non ne poteva quasi più di rimirare dalla finestra della sua stanza.

Poi, naturalmente, c’erano loro. Le scolopendre.

Ce n’era una sulla tavola, proprio in quel momento. Si stava muovendo flessuosa, zampettando accanto al piatto della torta. Marco guardò sua madre, la quale teneva ora le mani intrecciate ricambiando il suo sguardo con l’espressione più amorevole che le riusciva di manifestare. Aveva una scolopendra fra i capelli. Le si insinuò sotto una ciocca, facendogliela ondeggiare come se fosse mossa da qualche spiffero inesistente. Col suo grappolo di zampette esili scomparve lesta, e la donna si ravviò con indifferenza la chioma stopposa. 


Marco avrebbe tanto voluto che se ne andassero, tutte quante, che la smettessero di strisciare ovunque, di annidarsi in ogni anfratto, di scivolare in mezzo alle fessure, di frusciare quando il silenzio nella casa era più profondo, più insondabile. Anni prima si era illuso di poterle contare, addirittura. Di riuscire a distinguerle l’una dall’altra. Ma si era reso conto ben presto che l’idea era davvero stupida.

Non gli erano mai piaciute. Non perché gli facessero del male. Non gliene avevano mai fatto. Però erano tante. A volte si sentiva spinto a pensare che la casa appartenesse a loro, e che lui e sua madre fossero solo due ospiti, semplicemente tollerati. Ma certe cose a mamma non le poteva dire. Lei non voleva che si parlasse male di loro. E quando una volta Marco ne aveva tagliata a metà una con un coltello, giusto per la curiosità di scoprire come avrebbe reagito, per contemplare le due parti contorcersi come se fossero due bestiole distinte e autonome, sua madre si era messa a piangere ed era corsa a chiudersi in camera da letto. L’aveva sentita parlottare da sola. Pregare, forse. In ogni caso, quando era uscita gli era parsa di nuovo tranquilla; ma era solo un’apparenza, poiché gli si era avvicinata senza dire una parola e gli aveva mollato un ceffone. Allora era toccato a lui, piangere. Da quel giorno, naturalmente, aveva sempre evitato di ucciderle (davanti a lei, perlomeno).

Ovvio, c’erano circostanze in cui gli risultava davvero impossibile non schiacciarle. A letto, rigirandosi nel sonno, per esempio. Quando la mattina ne trovava sulle lenzuola o sul cuscino, ridotte praticamente in poltiglie a volte ancora tremolanti, se ne sbarazzava grattandole via e lasciandole cadere nelle fessure fra le assi del pavimento. Era difficile che sua madre non se ne fosse mai accorta, però. Quando lavava lenzuola e federe non poteva non notare le sbiadite chiazze brunastre lasciate talvolta sul tessuto dai corpicini sbriciolati. Marco immaginava che in quei casi fosse comprensiva, anche perché era molto probabile che capitasse pure a lei.

Per quanto riusciva a risalire all’indietro nel tempo con la memoria, la presenza di quegli animaletti era da sempre una costante, in quella casa, e quindi nella sua vita. La necessità di convivenza aveva sedimentato diverse abitudini comportamentali, sia dall’una che dall’altra parte; per cui era molto raro il fatto che le scolopendre


girovagassero sul pavimento, almeno quando Marco o sua madre si spostavano da una stanza all’altra. Ne risultava che si poteva camminare in quasi totale tranquillità senza dover controllare a ogni passo, nel timore di sentire lo sgradevole scricchiolio umidiccio sotto le suole. Marco ormai non si meravigliava né si spaventava più, quando ai margini del suo campo visivo le pareti si animavano di macchie filiformi e sinuose, o quando le luci calavano d’intensità o brulicavano d’ombre, se le bestiole dal soffitto cadevano o si infilavano di proposito dentro lampadari e coprilampade.

Faticava ancora un poco, è vero, a reprimere un brivido di repulsione quando il rapido e inatteso sfregolio di quelle zampette gli attraversava il dorso di una mano, o peggio gli risaliva lungo un polpaccio; in quei casi, dopo essersi accertato che non ci fosse mamma nei paraggi, si assestava alcuni colpetti alle gambe, sopra i pantaloni, e allora poteva accadere che la scolopendra se ne uscisse in tutta fretta, scomparendo veloce oltre un battiscopa o sotto un armadio, oppure che gli ricadesse inerte, magari non del tutto integra, sopra una scarpa.

A volte invidiava mamma, che pareva non provare il minimo disagio. Se le lasciava zampettare addosso, quando si riposava in poltrona leggendo un libro. E non le importava che le risalissero lungo le braccia, o sul collo, o lungo le guance; spesso quelle si soffermavano anche sopra le pagine aperte, simili alle gonfie righe di una scrittura aliena, ma a lei non davano fastidio: bastava un colpetto sul dorso del libro, e quelle se ne andavano con la loro andatura ondivaga.

Mamma, del resto - per quanto le bestiole fossero per loro natura totalmente autonome, in quanto a capacità di sopravvivenza e sussistenza - pareva trarre gratificazione dal nutrirle talvolta con le sue mani. Dai soffitti della casa penzolavano qua e là strisce luride e arricciate di carta moschicida; una volta raggiunta la saturazione di insetti catturati mamma le staccava con perizia, e usando attenzione e un paio di pinzette ne toglieva mosche, moscerini e piccole farfalle per riporli in un tozzo vaso trasparente, di quelli usati per preparare conserve e marmellate. E allora, poi, le piaceva tanto sedersi sul bordo del divano, il vaso tenuto in grembo, e richiamare le scolopendre con una sorta di fischio sordo e ripetuto. Dopo una breve attesa quelle cominciavano a sciamare, come se comparissero dal nulla, materializzandosi da ogni pozza d’ombra che si sgretolava in mille corpicini irrequieti (e quando erano in tante, tutte assieme producevano quello stesso brusio intermittente simulato per attirarle).

Mamma, a quel punto, affondava la mano nel vaso e a piccole dosi distribuiva pizzichi di insetti morti sul pavimento. In quei momenti Marco rimaneva incantato a osservare la scena, mantenendosi muto in disparte. Ripensava, immancabilmente, all’illustrazione vista in un vecchio libro di racconti per ragazzi, a quella contadina che dal grembiule raccolto a mo’ di sacco distribuiva chicchi di mais al pollame. Nel disegno, galline e pulcini parevano esplodere dall’euforia, svolazzando e balzellando per ogni dove fra nubi di polvere e piume. Anche le scolopendre dovevano trovare stimolante quella pioggia di cibo, e le si vedeva attorcigliarsi, strisciarsi addosso le une alle altre, in una frenesia di zampe, dorsi snodati, minuscole fauci. Anche mamma, mentre svolgeva quel curioso servizio, contemplava con aria intenta, quasi affascinata. E quando la scorta nel vaso terminava, e le bestiole avevano consumato anche l’ultima razione, allora si alzava lentamente in piedi; e per le scolopendre quello era il segnale. Nel giro di pochi secondi scomparivano tutte, sazie e probabilmente grate (almeno così supponeva Marco).

In fondo, se non fosse stato per i rumori che spesso si udivano, la notte, provenire dagli angoli più profondi e nascosti, quei rumori che lo svegliano di soprassalto e spingevano il suo cuore a ostruirgli la gola, Marco non avrebbe potuto dire, in tutta onestà, di vivere davvero male, in quella casa. Certo, gli mancavano tante cose, cose di cui aveva solo letto nei libri illustrati che col loro peso incurvavano un paio di lunghe mensole, nel salottino; altri ragazzini come lui con cui giocare, gite all’aperto, corse nei campi, animali da compagnia (aveva avuto un cagnolino, tempo addietro, Toby, ma un giorno quello era sparito, all’improvviso, e mamma gli aveva detto che in quella casa era meglio non tenere più cani o gatti, pur senza spiegargliene il motivo).

D’accordo, capiva anche che le proprie condizioni di salute non gli consentivano di fare tutto ciò che avrebbe voluto: mamma glielo aveva ripetuto tante di quelle volte che ormai il concetto gli si era radicato in testa come il muschio a un tronco, per cui non gli pesava nemmeno più. Sapeva solo che se fosse uscito sarebbe andato incontro a conseguenze non meglio definite, ma di sicuro spiacevoli, almeno a sentire mamma. E di lei si fidava ciecamente. Quando lo lasciava da solo per andare in paese - guadagnava quel poco che bastava a tirare avanti stirando o facendo pulizie in case private - lui non si era mai neppure sognato di mettere il naso fuori dalla porta. “Non uscire. Mai. Per nessun motivo.” Così gli aveva detto e ridetto, e tanto gli bastava. Anche perché una volta aveva aggiunto a quella perentoria raccomandazione: “Se lo farai, loro me lo diranno.” Marco ricordava ancora che a quelle parole quasi se l’era fatta addosso. Era più piccolo, ovviamente, e l’idea che loro davvero potessero fare la spia a sua madre l’aveva raggelato.

In effetti, ancora non sapeva che pensare, in proposito. L’idea che le scolopendre potessero ‘dire’ qualcosa a mamma gli appariva piuttosto bizzarra, anche se era senz’altro vero il contrario. L’aveva sentita in svariate occasioni parlare, nella sua stanza. Non aveva mai voluto origliare, però neppure aveva potuto fare a meno di sentire. Parlava alle scolopendre, probabilmente. Del resto, non c’erano che loro. Usava un tono dolce, flemmatico, e solo poche parole o piccole frasi smozzicate uscivano nitide da quel chiacchiericcio sommesso. Una di esse era amore, ma c’era anche solitudine, e ancora per un po’… Succedeva soprattutto la notte, quando i rumori risuonavano nelle sacche di silenzio della casa.

I rumori, già...

Ma non si trattava solo di rumori. No, non c’erano solo quelli.

C’era l’ombra. Bassa, rigonfia, agile eppure greve, che più di una volta Marco aveva scorto con la coda dell’occhio. Non sapeva cosa fosse, e una volta aveva domandato a sua madre se anche lei l’avesse mai vista. Mamma aveva negato fermamente, facendogli capire che comunque non gradiva l’argomento. Marco non aveva insistito, soprattutto perché le sembrava già tanto avvilita per conto suo, per le mille oscure ragioni che solo un adulto può conoscere, e non gli pareva giusto darle ulteriori pensieri. Però...

C’era qualcosa, in quella casa, sì. Un animale, forse. Lo deduceva dal fatto che la sagoma intravista era bassa, e non di rado aveva colto appena il guizzo di una coda, nera e appuntita. Viveva lì con loro, e anche se Marco non l’aveva mai visto veramente ne percepiva spesso la presenza. Dietro una parete, in fondo alle scale che scendevano in cantina, o altre volte nella soffitta, dove lo immaginava annidarsi dietro bauli e cumuli di ciarpame... Lo sentiva muoversi (era lui, la notte, che si spostava, lento, producendo quei rumori), trascinarsi sopra le assi, urtare sedie al suo passaggio, spingere porte strappando ai cardini cigolii che correvano come punte d’aghi lungo nervi scoperti.

Talvolta, al mattino, ritrovandosi a tavola per la colazione, Marco aveva provato a sondare il terreno, domandando: “Mamma, eri tu a girare per casa, stanotte?” La risposta era immancabilmente affermativa. Mamma aveva sete, mamma aveva fame, o doveva andare in bagno, o non riusciva a prendere sonno... Stesse risposte alle stesse domande. Andavano così, le cose, in quella casa. Da sempre.


Mamma lo aiutò a tagliare un paio di fette di crostata; quindi le posò sopra due piattini, ed entrambi cominciarono a sbocconcellare usando piccole forchette un po’ annerite. Marco masticava sforzandosi di sorridere.

Povera mamma, si ritrovò a pensare, avvertendo di colpo quanto una simile considerazione lo facesse sentire più grande. Provare commiserazione per la propria madre non era roba da bambini. Magari, l’aver raggiunto il suo primo decennio di vita lo aveva cambiato. Di poco, ma quanto bastava per consentirgli di cominciare a ragionare secondo schemi nuovi. A poter prendere delle decisioni, forse.

Voglio sapere, pensò, guardando la donna magra che gli sedeva di fronte. Voglio scoprire, voglio aiutarti, voglio cambiare. No, aveva ancora troppa confusione, dentro la testa. Ora sulla tavola serpeggiavano dieci, dodici scolopendre. Pareva non sapessero dove andare, eppure dovevano seguire per istinto qualche preciso tragitto. Marco immaginò di infilzarne una con la forchettina e di portarsela alla bocca. Chissà se in quel modo - mangiandone una! - avrebbe potuto acquisire quella chiarezza, quella lucidità che ancora gli mancava. Sorrise a quella fantasia, e mamma ricambiò, senza apparente motivo.

Dieci anni. Era tempo di fare qualcosa, sì.

E deglutendo a fatica un boccone di mele calde si ripromise che qualcosa avrebbe fatto. Qualsiasi cosa, pur di voltar pagina. Non era piacevole percepire già il peso e l’odore stantio della quotidianità. Non alla sua età. Se avesse udito di nuovo quei rumori, la notte, non si sarebbe più infilato come in un bozzolo sotto le lenzuola, non avrebbe finto di non sentire. E se c’era qualcosa da scoprire, lo avrebbe fatto. Senza più rimandare. Non dovette attendere molto. Perché nel giro di poche ore calò per lui la notte.


Una volta solo, nel silenzio e nella semioscurità della sua cameretta, rimase con gli occhi spalancati inchiodati al buio che lo sovrastava. I soliti fruscii, ovunque. Sempre loro, naturalmente. Ma non dormivano mai? Certo che lo facevano, però mai tutte insieme: ecco il segreto del loro incessante brulichio, del loro sempiterno strisciare, correre, scivolare...

Nemmeno lui voleva dormire. Era stata una giornata intensa, se non altro per il caos che l’aver compiuto dieci anni gli aveva acceso nel cervello. E l’oscurità, come una coltre di scolopendre, lo cullava nel suo abbraccio tiepido, confortante. Non devo dormire. La stanza ruotava su un perno, con la stessa inesorabile cadenza di una lancetta dei minuti. Devo aspettare. Piccoli fruscii sul cuscino. Sapeva di averne alcune accanto alla testa, ed era ben determinato a non muoversi. Non le voleva schiacciare. Restate, se volete. Io devo solo aspettare. Aspettare...

Quando la porta della sua stanza cominciò ad aprirsi, piano, lasciando trapelare il fascio bianchiccio di luce lunare che un finestrino privo di tende invitava ad accomodarsi e a morire lungo il corridoio, Marco si morse un labbro. Non lo aveva sentito avvicinarsi. Era stato furbo, o forse solo premuroso. Senza togliere gli occhi dal golfo di penombra in cui si nascondevano le travi del soffitto, rimase in febbrile ascolto. Qualcuno stava entrando. Non era mamma. Lei era andata a coricarsi già da un pezzo, e avrebbe riconosciuto perfettamente il rumore della sua porta, se l’avesse aperta. Qualcuno si avvicinava al letto, avanzando carponi...  L’idea l’avrebbe raggelato, in altre circostanze. Ma in quel momento gli parve solo una curiosità su cui riflettere in un secondo tempo, a mente più lucida. E quando il lucore che disegnava il contorno della porta semiaperta venne oscurato da una sagoma nera che si sollevava dal pavimento, tirandosi in piedi, allora scelse di chiudere gli occhi. Ebbe comunque l’impressione che le sue palpebre si fossero fatte trasparenti, dal momento che continuava a vedere le stesse cose che galleggiavano nel suo campo visivo fino a pochi secondi prima. Sei tu, pensò. E sentì il proprio sorriso inumidirsi di lacrime. Una forma. Quella di un uomo che si chinava su di lui. Che gli posava un bacio lieve sulla fronte. Sei tornato...

Desiderò sollevare le braccia, ma lenzuolo e coperta gli impedivano di muoversi. Voleva abbracciare quell’ombra, trattenerla accanto a sé, ma non ne era capace. E sapeva che se avesse esitato ancora un po’ quella se ne sarebbe andata, in silenzio, lasciandolo di nuovo solo. Cercò di parlare, ma era come se avesse un sasso incastonato al centro della gola. La sagoma tornò a sollevarsi, sottraendosi all’abbraccio che Marco non era riuscito a concedersi. Si udì allora un rumore strano, simile allo sfaldarsi improvviso di una statua di sabbia bagnata. E l’ombra torreggiante di fianco al suo letto perse del tutto ogni forma umana, sbriciolandosi all’istante in migliaia di scolopendre che piovvero strillando addosso al corpo immobilizzato di Marco.

A bocca spalancata aspirò di colpo una boccata d’aria e buio, riempiendosene i polmoni mentre tornava a spalancare gli occhi sulla semioscurità della stanza e a liberarsi della coperta con un istintivo scatto del braccio. Tirandosi a sedere sul letto, portò i palmi delle mani sul cuore, come a impedirgli di frantumare le costole e balzargli fuori dal petto. Avrebbe dovuto essere ormai avvezzo, agli incubi, eppure...

E quando il sangue smise di sferrargli colpi ritmici e rimbombanti dietro le tempie, eccoli, di nuovo, a ritagliarsi uno spazio sulla sua coscienza. I rumori.

La cosa doveva essere uscita dalla sua tana, dal suo nascondiglio, ovunque fosse, e nelle tenebre silenziose che possedevano la casa si era messa in movimento. E a quel punto Marco avrebbe fatto lo stesso.

Nonostante l’onirico pozzo di spavento in cui era precipitato e da cui era appena emerso, sapeva di non poter cambiare idea. Non si sarebbe tirato indietro. Lo aveva fatto già tante volte, in passato, ma adesso era pronto. Perché ormai si era convinto, dall’alto dei suoi dieci anni, di non poter più continuare a vivere senza sapere.

Scese dal  letto, a piedi nudi, cercando di controllare il respiro, e con infinita cautela, per non suscitare allarme, aprì la porta e sporse il capo. Vaghe particelle scure zampettarono via lungo le pareti giallo ocra.

I rumori provenivano dalla stanza in fondo al corridoio. La stanza di sua madre. Rimase immobile, chiedendosi come mai quella constatazione non lo meravigliasse affatto. Forse perché l’aveva sempre sospettato.

In punta di piedi si incamminò lungo il corridoio, accompagnato dai mille sussurri di scolopendre invisibili. Raggiunse la porta oltre la quale qualcosa si stava agitando. Posò la fronte contro il legno, trattenendo fra i denti stretti il coraggio per fare ciò che non poteva evitare.

Dall’altra parte provenivano colpi ovattati sul pavimento, come se piccoli martelli di gomma battessero contro l’assito. Si udivano anche dei cigolii, dei fruscii raschianti, un rantolio sordo e gorgogliante, e - appena avvertibili al di sotto di quello sgradevole tappeto sonoro - a intervalli emergevano mugolii umani, bisbigli tronchi e frettolosi.

Non c’erano chiavi, in quella casa. Nessuna porta era mai veramente chiusa. La piccola mano sulla maniglia premette verso il basso. E smettendo di respirare  Marco spinse, e guardò.

Lo sapeva. In cuor suo, l’aveva sempre saputo. E ciononostante, una paura talmente grande da non poter essere contenuta entro i confini angusti della sua coscienza gli donò l’esperienza di esplodere e disperdersi nel nulla di un universo fatto di sola tenebra.

Non capì subito cosa stesse guardando. Inondato dall’opalescenza cinerea che trasudava da un lucernario, un corpo lucido e scuro stava disteso bocconi sul letto di mamma. Non era un corpo umano. Nel suo movimento flessuoso, cadenzato, rimandava dal dorso scaglioso barbagli bruni e violastri. Un numero indefinibile di zampe aguzze e flessibili componevano col loro agitarsi un disegno ondulatorio, quasi ipnotico. Ma solo una metà di quel corpo abnorme, quella anteriore, se ne stava adagiata sopra il materasso, mentre il resto debordava, in fondo al letto, e picchiettava con le sue viscide appendici sulle assi del pavimento.


La struttura in legno del letto e la rete scricchiolavano sotto il suo peso, e a quei rumori si univa un basso stridore che fuoriusciva dalle fauci a tenaglia di quell’essere inverosimile.

Marco lasciò che gli si gonfiassero gli occhi, colmandosi di quella visione. Mai, mai avrebbe immaginato che potesse esisterne una così grande. Ma mentre il suo cervello era impantanato nell’elaborazione dell’inaccettabile, ecco che la sua mente si aprì alla prima cosa che Marco aveva effettivamente visto, affacciandosi sulla stanza, ma che d’istinto aveva tardato a interpretare. Prima ancora di accogliere in sé l’inconfutabile verità circa l’esistenza di quella bestia, i suoi occhi avevano visto mamma.

C’era anche lei nel letto, supina. Marco poteva vederne solo un braccio e una gamba nudi emergere dal viluppo di quelle zampe che si strofinavano su di lei, che la lambivano, la carezzavano; e la testa, posata sul cuscino. L’espressione estatica della donna appariva totalmente incompatibile con la presenza di quel mostro, che le gravava addosso come un incubo incarnato. Dalle sottili labbra semichiuse trapelava un mugolio prolungato, modulato. E forse quel suono era peggiore, più insostenibile, dei versi rochi prodotti dalla bestia.

Marco non ebbe consapevolezza del singulto strozzato che gli scaturì dalla gola. In risposta a quell’involontaria manifestazione di sgomento, con esasperante lentezza sua madre voltò il capo verso di lui, e sollevò le palpebre. I due rimasero a fissarsi l’un l’altra. Sul volto della donna era colata un’espressione indecifrabile, come se stesse guardando dentro un tunnel senza fine e non vi vedesse altro che buio. Però i suoi occhi erano velati da un pianto a stento trattenuto.

Marco si sentì avvolgere da un gelo che ora gli usciva a fiotti dal cuore. I margini del suo campo visivo presero a restringersi, a strozzarsi attorno a quell’immagine che travalicava i limiti della ragione e della follia. Privo ormai di ogni ancora mentale, libero di fluttuare alla deriva nell’oceano pullulante d’ombre che lo circondava, richiuse piano la porta e tornò, svuotato, esausto, nella sua stanza. Sperando di riuscire a smarrirsi nel conforto ultimo del sonno.


Se ne stava in piedi davanti al lungo specchio appeso fra il letto e l’armadio, quando entrò sua madre.

Il mattino rovesciava attraverso la finestra una nube di luce scialba e polverosa che ammantava tutto in un drappo freddo e vagamente funebre.

Senza voltarsi, Marco rimase immobile a guardare la donna nel riflesso. Quella gli si avvicinò, quietamente, portandosi alle sue spalle, e con movenze trasognate lo cinse in un molle abbraccio. I due si scrutarono per lunghi istanti, facendo dello specchio un campo neutro per evitare di incrociare direttamente sguardi e anime.

Alla fine, mamma parlò.

“Stai crescendo, amore mio. Ne sono addolorata, ma è giusto che sia così.”

Marco, il cuore in tumulto, distolse l’attenzione dal volto pallido della madre e tornò a fissare se stesso, i propri occhi grandi, acquosi, completamente neri. Aveva la testa stipata di domande, ma non ne avrebbe espressa neppure una. Non più.

Sollevò le mani e intrecciò teneramente le lunghe dita - troppo sottili, troppo scure - a quelle di mamma.

“Hai davvero gli occhi di tuo padre…” mormorò con dolcezza la donna nello specchio.

E Marco non seppe se sentirsi orgoglioso, o se mettersi a urlare.

 



Nicola Lombardi has published the novels The Gypsy Spiders, Black Mother, Night Calls, The Red Bed, The Tank and Strigarium, as well as seven collections of stories since 1989. In addition, he has published novelizations from the films of Dario Argento and translated works by Jack Ketchum, Seabury Quinn, and many others for the Italian market. In 2021 Tartarus Press published his collection The Gypsy Spiders and Other Tales of Italian Horror. Full bibliography at www.nicolalombardi.com.